I parsunâg’ bulgnîṡ
I personaggi bolognesi


Int al 2000 Gigén Lîvra al colaboré a un’iniziatîva editorièl interesanta: l’êra una rivéssta culturèl bulgnaiṡa, dal téttol ed Menabò. Al scréss socuànt pzulén såura i parsunâg’ dla Bulåggna dialetèl, ch’i fónn publichè dal żóggn dal 2000 fén al mumänt che la rivéssta l’asré butaiga. Al Sît Bulgnaiṡ l à avó al parmàss ed publichèr chi pzulén, ch’i én scrétt con inteligiänza e argózzia - Nel 2000, Luigi Lepri partecipò a un’interessante iniziativa editoriale: una rivista culturale bolognese intitolata Menabò. Scrisse alcuni pezzetti sui personaggi della Bologna dialettale, pubblicati fra il giugno 2000 e la chiusura della rivista. Il Sito Bolognese ha ottenuto di ripubblicare quei pezzi, scritti con intelligenza e arguzia.

Oreste Biavati

Nel 1954, a Bologna ebbe grande successo di pubblico il film “Hanno rubato un tram” con Aldo Fabrizi e Carlo Campanini. Non era un colossal americano né un western, ma i bolognesi correvano in massa a vederlo soprattutto perché era stato girato a Bologna e perché nel film appariva, nelle vesti di avvocato, un personaggio allora popolarissimo: Oreste Biavati, eroe della Piazzola, venditore ambulante di lamette, oratore arguto e penetrante, dall’affascinante eloquio popolaresco.
A quel tempo, chi si trovava a passare nei pressi del banco di Biavati ne era inevitabilmente attratto, non poteva fare a meno di fermarsi ad ascoltare i suoi discorsi avvincenti, pieni di storielle ironiche e maliziose battute di spirito. Come mai tanto fascino, tanta popolarità?

Biavati era nato nel 1890 in una famiglia poverissima e, prima di trovare il mestiere definitivo, aveva fatto il ciabattino, l’apprendista profumiere, l’ombrellaio, l’allevatore di bachi da seta e addirittura il pastore di un’unica pecora per vendere latte e formaggio. Questa attività la svolse indossando uno smoking, ma non era stravaganza: un cameriere, impietosito dal suo vestito a brandelli, gli aveva regalato una vecchia divisa da servizio di sala. Durante queste prime peripezie, però, il giovane Oreste non cessò mai di coltivare la grande passione per la lettura. Anche in questo era instancabile, leggeva libri, giornali, opuscoli, Bibbia e Vangeli, pubblicazioni politiche e quant’altro gli capitasse a tiro.

Forse la sua straordinaria capacità oratoria gli venne proprio da qui, oltre che da un talento naturale. Nella quotidiana faticosa esigenza di coniugare il pranzo con la cena, trovò la sua strada definitiva. Aveva conservato vecchie cianfrusaglie, oggetti di scarto, misera paccottiglia, ed era senza il becco di un quattrino. Andò in piazza Otto Agosto, stese un panno in terra disponendo tutto in bell’ordine e cominciò a parlare per illustrare la merce. La gente si fermò sempre più numerosa e dopo poco tempo aveva venduto quasi tutto. Era fatta. Da allora, per oltre mezzo secolo, non ci fu bolognese che non conoscesse e non si fermasse ad ascoltare Biavèti quall däl lamàtt (Biavati quello delle lamette).

Le lamette, appunto, diventarono presto la sua merce preferita. Si dice che fossero di qualità scadente e che i bolognesi le comprassero quasi per ripagare il brillante venditore dell’impareggiabile divertimento che offriva con i suoi discorsi, ma non c’è da crederlo. Erano lamette come le altre, con il valore aggiunto del fascino declamatorio, degli arguti commenti a vicende e personaggi dell’attualità. Questa è conosciuta da molti, ma la riporteremo a beneficio dei giovani.

Durante gli anni dell’autarchia, la carne, introvabile da noi, abbondava sulle tavole inglesi. Biavati, però, sosteneva che Se i ing-lîṡ i an äl bistàcc, nuèter avän i limón. A sän pèra! (se gli inglesi hanno le bistecche, noi abbiamo i limoni. Siamo pari). Era anche considerato un sovversivo, perché ripeteva spesso: Al dûce l é un gran òmen. Par fèr dvintèr tótt prezîṡ a ló, biṡugnarêv tajèrel a pzulén e ónnżer tótt chi èter (Il duce è un grand’uomo. Perché tutti diventino come lui, bisognerebbe tagliarlo a pezzetti e ungere tutti gli altri). Così veniva prudentemente trasferito in galera quando c’era Mussolini a Bologna. Poi, partito l’uomo del destino, veniva liberato per tornare al suo banchetto. E i bolognesi si fermavano in gran numero, ridevano, si attardavano incantati ad ascoltarlo e compravano lamette, dentifrici, saponette.

In questo modo l’omino con basco e barbetta aguzza, straordinario affabulatore, sbarcava il lunario e riusciva a mantenere la famiglia numerosa. Infatti sosteneva A cà ai ò zincuanta mêter ed budèl da rinpîr tótt i dé (A casa ho cinquanta metri di budelle da riempire ogni giorno). Aveva calcolato la lunghezza totale degli intestini di tutta la famiglia. Molti suoi motti e facezie fecero il giro della città, per entrare poi stabilmente nelle citazioni dialettali. Oltre a quella sulle bistecche inglesi e i limoni italiani, ricordiamo un aforisma che ripeteva spesso negli ultimi tempi: Amucèr di góbbi l é fadîga, mantgnîri l é un’angósstia e pêrdri l é un dulåur (Accumulare denaro è fatica, conservarlo è una pena e perderlo è un dolore). Per questo, diceva, a lui bastava lo stretto necessario per riempire ogni giorno di tajadèl quei famosi cinquanta metri di consanguinee budelle. E ci riusciva sempre, grazie alla loquacità apprezzata non soltanto dal popolino bolognese ma anche da personaggi come Riccardo Bacchelli, Giuseppe Dozza, Gino Cervi, Alberto Menarini, Renzo Renzi, Franco Cristofori, Athos Vianelli, solo per citarne alcuni.

Così Oreste Biavati, grazie alla seduzione delle sue parole, seguitò a vendere lamette fino alla fine, degno erede del predecessore Giuseppe Ragni e dello spirito petroniano, ironico, caustico e spassoso di Giulio Cesare Croce. Chi andasse al mercato della Piazzola, levi lo sguardo al primo palazzo in angolo fra via Indipendenza e piazza Otto Agosto. Troverà una lapidetta con un bassorilievo, somigliantissimo, che lo raffigura mentre pare proclamare ancora con caricaturale fierezza Però, nó itagliàn avän i limón!

Fausto Carpani

Il dialetto bolognese è perseguitato da un triste destino. Il cinema e la televisione lo usano soltanto per qualche frase pronunciata da puttane sguaiate o camionisti stupidi. E anche la canzone dialettale bolognese, per molti anni, è rimasta segregata nella facile gabbia dell’umorismo rozzo e dozzinale. Poi sono arrivate le canzoni di Quinto Ferrari, del quale parleremo in futuro, e quelle del suo erede artistico: Fausto Carpani. La vicenda di questo cantautore che usa il dialetto classico di Bologna iniziò quasi per caso, quando nel 1988 partecipò alla seconda edizione del Festival della canzone dialettale voluto dall’assessore pugliese Nicola Sinisi. Si presentò con Lucàtt Blûṡ (Lucchetto Blues), una canzone divertente cantata a due voci insieme a Geppo Pulga, e si piazzò al primo posto a pari merito con L’aventûra di Cesare Malservisi. Ma Carpani sapeva benissimo che il nostro dialetto è lingua completa e, come tale, in grado di andare ben oltre la barriera del cabaret popolaresco. Così partecipò anche al terzo e ultimo Festival con Prè ed Cavrèra (Prati di Caprara), una canzone coinvolgente, nostalgica, dolce ed evocativa. Chi era in piazza Maggiore quella sera ricorda l’autentica ovazione con la quale un pubblico in prevalenza giovane accolse questo brano, che vinse alla grande.

Ma si può proprio dire che il bello venne dopo. A Bologna e dintorni esplose letteralmente un’improvvisa voglia di dialetto cantato. Qualche radio locale prese a diffondere Prè ed Cavrèra e qualcuno cominciò ad invitare Carpani a feste, raduni, sagre, intrattenimenti. La moderna canzone in dialetto bolognese avviò così il suo volano, inizialmente pesante perché quasi fermo, ma incalzante e rapido una volta attivato. Il nostro cantautore consacrato in piazza Maggiore non rifiutò nessuna proposta, andò pazientemente ovunque lo chiamassero, si sobbarcò un impressionante tour de force per far conoscere le sue canzoni che nel frattempo nascevano come funghi, graditissime a un pubblico sempre più numeroso. Le serate dialettali in musica divennero cinquanta, sessanta, settanta all’anno. Roba da debilitazione fisica. Per fortuna nel 1989 Carpani conobbe Stefano Zuffi, musicista sapiente e virtuoso polistrumentista. Di lui si dice che sia capace di suonare ogni strumento, escluso il campanello di casa. Invece mandolino, violino, chitarre antiche e moderne, ocarine, ghironda, mandola, flauti, organetto, non hanno segreti. Zuffi ha addirittura inventato il buffo ma efficiente tubofono, definito anche “clarinetto da plumoni”, costruito con un tubo di plastica.

Alla coppia si aggiunse poi il taciturno Stefano Betti al contrabbasso e la leggiadra Ombretta Franco con tastiera, fisarmonica e percussioni. Si arrivò all’attuale formazione “Ditta Carpani & Zuffi”, amichevolmente definiti anche i Bagiàn (i Baggiani). Da quel 14 Agosto in piazza Maggiore le canzoni in dialetto di Carpani sono diventate oltre settanta, hanno fatto tanta strada e seguitano a macinare chilometri e serate a Bologna e provincia, ma non solo. Sono state in Brasile, Uruguay, Argentina, Stati Uniti, Canada, Francia, Romania, dove hanno riempito sale e teatri. Così il dialetto bolognese è stato spiegato e apprezzato anche in terre lontane, il massiccio volano della nostra canzone si è messo in moto, sono nati nuovi cantautori, altri già esistenti hanno trovato linfa e terreno favorevole, le serate con le canzoni dialettali vanno moltiplicandosi. È vero, ad avviare quel volano è stato un assessore pugliese e non petroniano, ma il carburante per proseguire poi il cammino è sgorgato con Prè ed Cavrèra, che ricorda e descrive sogni e svaghi dei giovani del dopoguerra. Chissà se in futuro qualcuno canterà i sollazzi giovanili della generazione del computer. Il dialetto bolognese sarà molto cambiato, ma speriamo almeno non sia messo in bocca solo a personaggi stupidi o sguaiati. Speriamo che l’esempio di Fausto Carpani non vada perduto.

Alfredo Testoni

Come in un romanzo d’appendice, nel Gennaio 1877 uno scrittore bolognese di vent’anni si vide accettare dal teatro del Corso di via Santo Stefano la farsa “Lucciole per lanterne”. Possiamo immaginare la trepidazione del giovane autore alla prima rappresentazione, le sue speranze, i suoi sogni. Ma come succede sempre anche nei romanzi, il suo primo lavoro fu un irrimediabile fiasco. Quel giovanotto di belle speranze era nato in via San Felice e si chiamava Alfredo Testoni. Però il giovane Alfredo desiderava ardentemente il successo, era caparbio, prolifico e in grado di scrivere una commedia in poche settimane. Fu così che iniziò la sua carriera di commediografo, prima in lingua poi in dialetto. Lo spazio non ci consente di descrivere sufficientemente quella carriera, comunque perfettamente illustrata nel 1981 da una minuziosa e bella biografia di Franco Cristofori. Basterà collegare la figura di Testoni alla commedia più famosa, quel “Cardinale Lambertini” che è considerato il suo capolavoro. Dopo notti insonni e lunghe ricerche alla biblioteca dell’Archiginnasio per conoscere a fondo la figura del Cardinale, nacque la commedia che fu proposta al grande attore Ermete Zacconi. A quell’epoca Testoni non era più un giovane di belle speranze ma un affermato giornalista, poeta, scrittore e commediografo di 49 anni. Eppure, nell’attesa del giudizio determinante di Zacconi, provò lo stesso batticuore dei suoi vent’anni al teatro del Corso. I due passarono insieme una giornata intera, senza mangiare né bere. L’autore leggeva ad alta voce il copione e l’attore, dapprima diffidente, rispondeva con grugniti e monosillabi sempre più compiaciuti. Alla prima del teatro Costanzi a Roma, lo spettacolo piacque ma non fu un trionfo. Poi autore e protagonista lo snellirono tagliandone un atto e tutto funzionò alla perfezione. Iniziò così una lunga catena di rappresentazioni in tutta Italia e arrivarono trionfi, fama e quattrini.

I primi diritti d’autore furono novemila lire che Testoni sbandierò eccitato sotto il naso dell’incredula moglie Cesira. Era una somma notevole per quei tempi e ci si poteva permettere di realizzare un sogno covato a lungo: l’automobile. Ne arrivò una grande, appariscente, rossa, battezzata “Lambertina” in onore del Cardinale teatrale che ne aveva reso possibile l’acquisto. Sull’onda del successo i guadagni si moltiplicarono, arrivò la ricchezza, e fu acquistata anche la “Lubbia”, un bella villa nella collina di Casalecchio.

Alfredo Testoni, inoltre, fu il più prolifico e più rappresentato fra gli autori dialettali bolognesi. Con Argia Magazzari e Goffredo Galliani, al teatro Contavalli, prima della Grande guerra fu protagonista di una felice stagione dialettale che inizia con Al tròp é tròp (il troppo è troppo) e si conclude dopo oltre quaranta commedie con La malatî pió granda (la malattia più grande). Ma sulla produzione dialettale ci sarebbe da dire molto. Ricordiamo soltanto che queste commedie, pur mirando ad una drammaturgia originale, strizzano sempre l’occhio ad elementi bonari e ridanciani di una malintesa bolognesità. Viene rappresentata in prevalenza una Bologna piccolo borghese, convenzionale e godereccia, nella quale i problemi reali e il popolo entrano soltanto in veste di macchiette. L’importante era costruire un meccanismo teatrale gradevole e divertente. E in questo Testoni era certamente bravissimo, tanto da essere forse il più rappresentato in ciò che resta del teatro dialettale bolognese. Il suo Cardinale, poi, è intramontabile. Dopo Bruno Lanzarini, Gianrico Tedeschi e Arrigo Lucchini, solo per citare gli ultimi, dal 1986 Guido Ferrarini lo mette in scena ininterrottamente ogni anno. Se fu celebrata la millesima recita nel 1923, si può ben dire che quella commedia ha fatto molta strada, proprio come il cardinale Prospero Lambertini che divenne papa Benedetto XIV.

Olindo Guerrini

A Bologna, fuori Porta Sant’Isaia, c’è una stradina corta e stretta fiancheggiata dall’alto campanile e dalla chiesa di San Paolo di Ravone. Nel 1929 quella stradina fu intitolata a Olindo Guerrini, in arte Lorenzo Stecchetti, scrittore e poeta romagnolo di nascita, ma bolognese d’adozione.

Se l’interessato fosse stato ancora in vita e avesse potuto dire la sua, forse non avrebbe scelto una strada tanto caratterizzata da un imponente simbolo del clero. Guerrini, infatti, oltre ad essere prolifico poeta verista e scapigliato, aveva un’irriducibile vocazione anticlericale evidente in molte sue opere, particolarmente nei sonetti in dialetto romagnolo. Sul Resto del Carlino del 19 Agosto 1903 apparve una notizia secondo la quale papa Pio X, appena eletto, a chi gli chiese il nome del nuovo Segretario di Stato, rispose “per ora il Papa osserva, pensa e prega...”. E Guerrini concluse così un suo sonetto: ... e’ stend e gamb, e’ sptona la butega / e pu e’ dòrum pinsand a la clazion. / Mè, sgond mè, a direbb che lò us n’infrega, / mo sgond a sti giurnèl di mi coiòn / “per ora il Papa osserva, pensa e prega” (... stende le gambe, sbottona i pantaloni / poi dorme pensando alla colazione. / Secondo me, direi che Lui se ne frega, / ma secondo questi giornali dei miei coglioni... con quel che segue). Le sue raccolte Postuma e Rime di Argia Sbolenfi, oltre ai sonetti dialettali, ottennero un successo notevole. La poesia Il canto dell’odio, per il suo estremismo espressivo, entusiasmò addirittura molte generazioni. Ma non è questa la sede per farne un’analisi puntuale. Vogliamo invece ricordare Guerrini come figura di primo piano di quella vita culturale bolognese che si svolgeva tra librerie e caffè, banchetti e discussioni politiche, redazioni e osterie. Era il mondo popolato da Carducci, Panzacchi, Testoni, solo per citarne alcuni. E ci pare giusto ricordarlo anche per la sua vocazione alle burle goliardiche, delle quali si parlava a lungo. Di una di queste fu vittima Alberto Bacchi Della Lega, insigne bibliofilo e suo vice alla direzione della biblioteca universitaria bolognese, che aveva spedito al Ministero un plico di certificati per concorrere a un posto di direttore della biblioteca di Padova. C’era però anche il Comune siciliano di Sciacca, che aveva bandito un concorso per accalappiacani. Guerrini intercettò i documenti che attestavano i meriti professionali di Bacchi e li spedì a Sciacca, da dove quel Sindaco rispose al “concorrente” dichiarando che, con molta sorpresa per gli eccellenti titoli esibiti, la Commissione lo aveva classificato al primo posto ed era pronta ad assumerlo con uno stipendio annuo di 410 lire per acchiappare i cani. Quando Guerrini nacque, nel 1845, il parto si presentò tanto difficile da costringere il chirurgo ad usare il forcipe. Per questo, da adulto, ripeteva spesso: “Io avevo giudizio fin dalla vita intrauterina: non volevo venire al mondo”. Dunque, pare anche che fosse malinconico e pessimista. Ma continuava a ideare burle, a sfottere il clero con impertinenza, a canzonare gli uomini di potere, ottenendo l’apprezzamento del popolo e della borghesia laica grazie a una satira un po’ pruriginosa ma tutto sommato innocua.

Morì nel 1916, considerandosi sempre un romagnolo attaccatissimo alle tradizioni, alla storia, alle usanze, alla cucina bolognesi. Mise addirittura in versi la ricette delle tagliatelle, con una poesia che termina così: Questa minestra che onora Bologna, / detta la grassa non inutilmente, / carezza l’uomo dove gli bisogna, / dà molta forza ai muscoli e alla mente, / fa prender tutto con filosofia, / piace, nutre, consola, e così sia. Detta da un romagnolo campanilista, più che un complimento è certamente una consacrazione.

Quinto Ferrari

Anche se lui non lo sapeva, Quinto era un grande. Un numero uno che sapeva far vibrare le corde dei sentimenti petroniani come pochissimi altri. Genuino e naïf, non cercò mai riconoscimenti. Eppure ebbe il grande merito di aver fatto nascere la canzone dialettale bolognese d’autore. Prima di Ferrari le nostre canzoni erano sinonimo di umorismo grassoccio, di battute grossolane, di spiritosaggini messe in musica per commediole all’italiana di basso profilo. Lui, invece, con quattro LP e una notevole mole di rime, per la prima volta ha raccontato anche cose serie, romantiche, autobiografiche, evocative. Ha cantato, da borghigiano del Borgo San Pietro, lo spirito della Bologna popolare. E ha saputo farlo con momenti di autentica poesia, come hanno riconosciuto Francesco Guccini, Lucio Dalla, Giorgio Vacchi, Eugenio Riccomini e tanti altri. Aveva una voce garbata ed elegante, da anziano bolognese, e quel dialetto schietto e classico del centro cittadino che gli specialisti definiscono “intramurario”. Sembrava, o forse era, un vecchio nonno saggio bolognese che ti aiuta a tenere vivo il ricordo delle tue radici. E tutto questo con straordinaria naturalezza, senza mai pontificare o salire in cattedra, senza atteggiarsi a maestro del dialetto. E, lui sì, avrebbe potuto farlo. Ricordo le tante serate, e nottate, ad ascoltarlo. Ricordo la voce, la chitarra appena sfiorata e l’atmosfera delle osterie, con la sua presenza che rendeva inevitabile arrivare fino a mattina o quasi. Ancor più che in teatro, ancor più che nelle serate d’onore in piazza Maggiore, Quinto faceva spettacolo autenticamente nostrano davanti al bicchiere di vino, fra amici, all’indimenticabile Osteria delle Dame, al Moretto, all’Autotreno di via della Secchia. Era qui, stretto dall’abbraccio di appassionati numerosi e attenti, che dava il meglio, che si rivelava veramente grande. Perché il suo mondo era quello e il suo pubblico lo ha conosciuto e amato lì, nel ventre di una Bologna sazia e serena. Bastava che si spargesse la voce “c’è Quinto al Mulino Bruciato” e via, tutti lì. Quando si usciva da quelle lunghe notti con lui, negli anni ’70-’80, pareva di avere un’idea più chiara di cosa significasse essere di questa città. Avevi nell’orecchio il suono dei portici, del popolo dei borghi, delle botteghe, e ti sentivi uno della sua famiglia. La famiglia del vecchio e saggio bolognese. Nella canzone “Bologna”, Guccini dice: “I tuoi bolognesi, se esistono, ci sono od ormai si son persi, confusi e legati a migliaia di mondi diversi?”. Quinto Ferrari, con la forza della semplicità e della parlata antica, magicamente li ritrovava.

Per fortuna, Bologna si ricordò di lui quando era ancora in vita. Gli assegnarono l’Archiginnasio d’argento in occasione degli 80 anni e il Nettuno d’oro qualche tempo prima di morire. Ne fu felice e orgoglioso anche perché c’eravamo tutti. E a un certo punto, ignorando ogni regola del cerimoniale, i presenti si misero a cantare sommessamente, poi via via sempre più forte. Era, s’intende, La Madunéṅna dal Båurg San Pîr, divenuta il suo marchio, un riconosciuto simbolo della bolognesità. Così, per un attimo, la sala Rossa del Comune sembrava diventata un’osteria insolitamente elegante. Cantò, a modo suo, anche il Sindaco Vitali, con Leonildo Marcheselli, Alfredo Medici, Presini e Danielli, i teatranti dialettali, appassionati e amici, quelli della Famèja Bulgnèisa e Fausto Carpani, l’erede artistico.

Le sue canzoni rimangono, ancora ben vive, cantate da altri o trasmesse da radio locali. Sono storie di gente comune, di amori dolce-amari, di malinconico umorismo, di memorie della città, che dimostrano come il dialetto non serva soltanto per le barzellette o per il folclore vignettistico. Il poeta del dialetto cantato, il popolano tipografo Quinto Ferrari, ha saputo usarlo per una rivoluzione che ha fatto scuola nella canzone petroniana.


Ala prémma pâgina
Và só