Dî bän só, fantèma!


Una nuvitè: i pzulén ed "Dî bän só, Fantèṡma" i s én trasferé dal giurnèl "Repubblica Bologna" al sît http://lepri.blogautore.repubblica.it, duv ai é un "blog d'autore" intitulè pròpi acsé. Par zónta, i letûr i pôlen scrîver quall ch'ai pèr såura a quall ch'al scrîv Gigén, såura ai détt dal dialàtt, i pôlen fèr däl dmand e... tótt al rèst! - Novità: i pezzi della rubrica "Dî bän só, Fantèsma" si sono trasferiti dal giornale "Repubblica Bologna" al sito http://lepri.blogautore.repubblica.it, contenente un omonimo "blog d'autore". In più, i lettori possono inviare i propri commenti su quel che scrive Gigén Lîvra e sui detti del dialetto, possono fare domande ecc. ecc.

As trâta d una rubrîca ed Gigén Lîvra, publichè tótti äl dmandg dala Repóbblica ed Bulåggna. Par fèruv vgnîr al vujén d andèrla a lèżer, a publicän qué socuànt nómmer, con l’urtugrafî ed ste Sît - Si tratta di una rubrica curata da Luigi Lepri e pubblicata ogni domenica dal giornale La Repubblica, alla sezione di Bologna. Per incuriosirvi, pubblichiamo qui alcune uscite, nell’ortografia di questo Sito

Dî bän só, fantèṡma!

Ai veglioni come andèr a trabb (30/12/1998)

La partecipazione a un’allegra riunione conviviale, come quelle che si stanno organizzando per festeggiare l’anno nuovo, veniva definita dal nostro dialetto Andèr a trabb (andare a trebbo). Raccontiamo allora un gustoso episodio accaduto al nostro bisnonno Paolo Trebbi, classe 1845, ai suoi tempo conosciuto a Bologna per la fama di esperto Invstidåur ed ninén (norcino). Verso gli anni ’10 il bisnonno abitava a Trebbo di Reno per esercitare il suo mestiere presso le famiglie contadine. Una sera, rincasando tardi dopo una cena fra amici, fu fermato dalla Questura, che gli rivolse le domande di prammatica: - Come vi chiamate? (si dava del Voi). - Am ciâm Trébbi (Mi chiamo Trebbi). - E dove abitate? - A stâg al Trabb (Abito a Trebbo di Reno). - E dove siete stato? Malgrado la situazione critica, il bisnonno rispose candidamente A sån stè a trabb (Sono stato a trebbo, cioè a una riunione fra amici). Purtroppo i questurini non erano bolognesi e scambiarono le risposte per una presa in giro. Così il malcapitato passò una notte in guardina da dove lo liberò un graduato nato in Via Lame, buon conoscitore del dialetto. Il caro Invstidåur, morto nel 1938, commentava l’accaduto col proverbio dialettale Tôrt o raṡån an t fèr métter in parån (torto o ragione, non farti mettere in prigione). Rientrando dai trabb di San Silvestro bisognerà ricordarsene. Buon anno.


Col benzene as inpèra a nudèr
(30/01/2000)

A Bologna sembra che il benzene abbia superato i limiti di legge non soltanto in Strada Maggiore e in centro, ma anche in periferia. Dunque, l’aria che respiriamo è sempre più avvelenata e abbiamo chiesto cosa ne pensano alcuni fra i più interessati, i Vigili Urbani, scegliendo quelli che parlano dialetto. Il primo commento degno di nota è stato L’âria la fà pió schîv che una caghè int i linzû (l’aria è più schifosa di un escremento nelle lenzuola). La similitudine, anche se rozza, ci pare eloquente. Per definire il ritardo delle autorità che da tempo dovevano prendere provvedimenti, un anziano sottufficiale ha detto I én cómm i sunadûr dla Cà Bûra (sono come i suonatori della Casa Buia). Il detto si riferisce a un’orchestrina che, in un cascinale della periferia bolognese, impiegò tutta la notte soltanto per accordare gli strumenti. Un altro Pulimàn (vigile), per giudicare le annunciate misure restrittive del traffico, ha ricordato un vecchio aneddoto bolognese. Un facchino dall’appetito smisurato, chiedendo alla moglie cosa c’era per cena, si sentì rispondere ż ôv dûr e un’anciavva (mezzo uovo sodo e un’acciuga). La sua replica fu Tra quasst e gnínt da zanna... (tra questo e niente per cena... non c’è differenza). I Vigili, che forse respirano più benzene di altri, sono un po’ dubbiosi. Ma uno di loro è convinto che finalmente saranno prese misure decisive, perché Quand l’âcua la tåcca i żanétt, as inpèra a nudèr (quando l’acqua tocca il basso ventre, si impara a nuotare).

Il metrò come al cavâl dala bèla scapè (06/02/2000)

In un centro sociale bolognese, discutendo dei recenti progetti comunali che prevedono scavi sotterranei per realizzare una metropolitana, un signore della Nosadella ha esclamato Par mé l’é una maitinè (per me è uno scherzo). È un’espressione che deriva da una curiosa consuetudine popolare. Quando si sposavano due vedovi o due anziani, un gruppo di burloni andava sotto le finestre degli sposi con campanacci, padelle, bidoni, trombette ed ogni sorta di oggetti rumorosi. Qui iniziava un fracasso e un festoso sfottimento che duravano anche molte ore. Pare che l’usanza fosse una grottesca degenerazione del Mattinare, l’antico omaggio mattutino eseguito con suoni e canti in lode di una dama, modificato poi dall’inguaribile ironia bolognese. Ma perché - abbiamo chiesto - si tratterebbe di uno scherzo? Perché, come sostiene il professor Celli, il metrò costa dieci volte tanto rispetto al tram. Inoltre, il progetto per quest’ultimo è già finanziato con 240 miliardi che, in base alla legge, non possono essere usati per altro. Se, dunque, la Giunta preferisse il metrò, farebbe come al cavâl dala bèla scapè (il cavallo dal bello scatto, che parte velocissimo ma si ferma presto). E non potendo realizzarlo per motivi economici, lascerebbe poi spazio alle auto. Questa è l’ipotesi, forse azzardata, espressa nel centro sociale. A mo’ di conclusione, infine, è stato usato un antico proverbio dialettale: In tänp ed carestî, anc un bû l é galarî (in tempo di carestia, anche un buco è galleria). Chi si accontenta gode.


Consulenze in Comune e al fatåur di Montagó (30/10/2000)

Pare che quest’anno la Giunta comunale di Bologna abbia deciso di spendere tredici miliardi in consulenze. Addirittura alcuni assessori avrebbero preferito ingaggiare personale esterno per le loro segreterie, piuttosto che scegliere tra i tanti dipendenti comunali. Proprio da uno di questi abbiamo sentito il commento Nuèter saggna tótta maròca? (noi siamo tutti da scartare?). L’uso del curioso vocabolo maròca si spiega così: un tempo, per rilegare i volumi di pregio si usava una pelle chiamata “marocchino”, proveniente dal Marocco in grosse balle di merce non preventivamente selezionata. Era quindi necessaria una cernita per separare le pelli perfette da quelle segnate da macchie, fori e abrasioni irregolari. Il materiale di scarto, utilizzato dopo l’eliminazione delle parti difettose, veniva definito dai legatori la maròca e il vocabolo servì poi per designare anche oggetti o persone di qualità scadente. Poiché gli attuali amministratori, quando erano all’opposizione, criticavano aspramente le consulenze assunte dalle Giunte di allora, lo stesso impiegato comunale ha commentato I én cme al fatåur di Montagó, ch’l insgnèva d arsparmièr par spanndri ló (sono come il fattore della famiglia Montaguti, che insegnava agli altri il risparmio per spendere lui). È uno dei tanti detti dialettali che serve ad indicare chi predica bene e razzola male. L’aneddoto, però, non specifica se quel fattore arrivò a spendere tredici miliardi come succede quest’anno in Comune.

Mucca pazza e la mèża pulpatta (27.11.2000)

Che fare con la mucca pazza? L’assessore comunale alla sanità Giampaolo Salvioli ha ribadito che non ci sono motivi per sospendere la carne rossa nelle mense scolastiche, ma il professor Giorgio Celli afferma che il rischio è alto e chiede di eliminarla almeno fino al primo gennaio. Il commento di nonno Iuṡfén è stato Sta fazannda l’é una mèża pulpatta (traduzione: questa faccenda è una mezza polpetta). La polpetta nacque come pietanza casalinga di ripiego nella quale si rifugiavano il manzo lesso rimasto, scarti di bistecca e avanzi di ogni tipo. Per questa eterogenea composizione il dialetto la usa come similitudine quando ci si riferisce a persone dalle scarse virtù o anche, come ha fatto il nonno, a cose e argomenti insidiosi e poco chiari. Talvolta, nel dialetto intimo, il vocabolo pulpatta è sostituito dal più scurrile pugnatta che ci asteniamo dal tradurre. Dunque Iufén è di fronte a un dilemma: dare ai nipotini carne bovina oppure soltanto uova, formaggi, carne di pollo e maiale? La decisione è tanto ardua da essere definita non soltanto pulpatta, ma addirittura ża (mezza) prendendo a modello qualcosa di incompiuto (una metà) che non offre certezze. Sia l’assessore Salvioli che il professor Celli sono due illustri scienziati. Chi avrà ragione? Un proverbio bolognese dice Al Zîl am guèrda dai cêtera di nudèr e dal pulpàtt ch’i um fan magnèr (che significa: il cielo mi guardi dagli eccetera dei notai e dalle polpette che mi fanno mangiare). Il nonno dovrebbe conoscerlo, chissà.

Róssc e bidón fan vaddr i spurcación (04.02.2001)

Un numero sempre maggiore di bolognesi abbandona in strada, fuori dai cassonetti, immondizia e rifiuti ingombranti, strappa manifesti e contribuisce a rendere Bologna più sporca. Così dichiara il direttore della Seabo. Nonno Iuṡfén, impressionato dalla situazione, ha esclamato: Al róssc e i bidón fan vaddr i spurcación (i rifiuti e le pattumiere rivelano gli sporcaccioni). Il vocabolo dialettale róssc (immondizia, pattume), anche italianizzato in rusco, deriva dal latino classico ruscus, cioè “pungitopo o arbusto cespuglioso”, usato anticamente come scopa. A fianco dei cassonetti, oltre ai rifiuti domestici, capita di vedere abbandonati anche infissi, materassi, lavandini, mobili in disuso, batterie d’auto esaurite. Il nonno definisce tutto ciò Pulizî ed Castelmêrd (pulizia di Castelmerdo), rifacendosi a un paese immaginario, ma molto eloquente. Iufén ha però un’ipotesi interessante. Forse molti bolognesi ricordano che, durante la campagna elettorale, gli attuali amministratori comunali assicuravano una lotta spietata al degrado bolognese. Lascerebbero dunque sporcare perché conoscono il detto dialettale Pió l’é råtta e méi la s ajóssta (più è rotta e meglio si aggiusta, cioè se una situazione è disastrosa il rimedio sarà più rapido). Ma a chi sperasse di ottenere interventi pubblici efficaci solo in presenza di un alto degrado e abbondante sporcizia, bisognerà ricordare un altro bel detto dialettale: Pîz al cicàtt dal bû (peggio la pezza del buco nella suola).

Sul traffico predicano bene e razzolano male (26.02.2001)

Questa l’abbiamo sentita al mercato delle erbe: I bacâi só l trâfic i fiuréssen cómm i streccapóggn in quaraima (le polemiche sul traffico fioriscono come i radicchi da campo nel periodo di quaresima). Gli attuali amministratori comunali hanno sempre sostenuto che le soluzioni dei problemi cittadini non sono né di destra né di sinistra, ma sono giuste o sbagliate. Però di fronte a ragioni che non condividono, anziché spiegare in dettaglio perché gli altri hanno torto, preferiscono appioppare un’etichetta politica. Sarà per questo che, sempre al mercato, una robusta massaia ha sentenziato I gêven póllpit mo l é dvintè pulpatta (dicevano pulpito ma è diventato polpetta, che equivale a predicare bene e razzolare male). Dunque, secondo la Giunta, i comitati antismog agirebbero solo in quanto di sinistra. Non sappiamo se vengono così giudicati anche i periti del Tribunale, ingegneri e professori universitari, che sostengono la necessità di attivare “Sirio”, ridurre le auto in centro, aumentare autobus, corsie preferenziali e piste ciclabili. Cioè l’esatto contrario delle decisioni comunali. Ma un piano del traffico può essere marxista? Oppure può essere più o meno efficace nel fornire mobilità e aria migliore? La risposta l’ha data lo stesso Frutarôl (fruttivendolo) con una similitudine dialettale: Vût cunfånnder äl putèn coi pizón ed piâza? (vuoi confondere le puttane coi piccioni di piazza?). Ha ragione, effettivamente c’è una bella differenza.


Ala prémma pâgina 
Và só