Alberto Menarini


Albêrto MnarénAlbêrto Mnarén l é nèd in San Carlén ai 8 d avréll dal 1904 e l é môrt ai 27 ed żnèr dal 1984, dåpp a una vétta pasè a lavurèr, da studiåuṡ sêri e ed gran livèl, só l dialàtt bulgnaiṡ. Defâti, al publiché socuànt artéccol e, masmamänt, 10 lîber só ste argumänt. A v dän qué la sô bibliografî, (quèṡi) conplêta:

Nato in via San Carlo l’8 aprile 1904 e morto il 27 gennaio 1984, Alberto Menarini è stato una grande figura di studioso del dialetto bolognese. Serio e rigoroso, pubblicò diversi articoli e soprattutto 10 libri sull’argomento. Diamo qui la sua bibliografia, più o meno completa:

- I gerghi bolognesi, Modena, Società tipografica modenese 1941
- Bolognese invece, Bologna, Alfa 1964
- Tizio, Caio e San Petronio, vicende di nomi nel dialetto bolognese, Bologna, Tamari 1968
- Fra il Sàvena e il Reno, Ricerche dialettali bolognesi, Bologna, Alfa 1969
- Uomini e bestie nel dialetto bolognese, Bologna, Tamari 1970
- Modi e detti bolognesi, Bologna, Tamari 1974
- Proverbi bolognesi, Milano, Martello 1975
- Bologna dialettale - Parole, frasi, modi, etimologie, Bologna, Tamari 1978
- Vocabolario intimo del dialetto bolognese - Amoroso sessuale scatologico, Bologna, Tamari 1983
- Pinzimonio bolognese, Bologna, Arti Grafiche Tamari 1985

L ûltum ed sti lîber l é vgnó fòra dåpp ala sô môrt, e dånca sänza cla cûra che normalmänt al i mitêva ló, mo la sô inprånta la s vadd anc. Invêzi l é nèd mèl “Parlare italiano a Bologna, Parole e forme locali del lessico colloquiale”, che Mnarén l avêva da scrîver par Forni insàmm a Fabio Foresti dl’universitè: quand ai muré Mnarén, dal 1985 al sô coautåur al cazé fòra al lîber in fûria e in frazza, dscurdàndes una móccia ed parôl che tótt i bulgnîṡ i cgnóssen e i drôven, siché dånca ai é di bûṡ ch’i chèven valåur a tótt al lîber. Mo la cåulpa la n é brîṡa ed Mnarén. 

L’ultimo di questi libri è uscito postumo, e dunque non ha avuto la revisione finale del suo autore, peraltro ancora riconoscibile. Nato male è invece “Parlare italiano a Bologna, Parole e forme locali del lessico colloquiale”, che Menarini avrebbe dovuto scrivere per Forni insieme a Fabio Foresti dell’università: morto Menarini, nel 1985 il libro è stato buttato fuori in fretta dal suo coautore, senza tantissime parole dell’italiano bolognese che tutti conosciamo e usiamo, con lacune cioè che inficiano la validità di tutto il lavoro. Ma non di Menarini è la colpa.


Ringraziamo per aver reso possibile questa pagina di un grande della nostra cultura: Gianfranco Pondrelli per aver scattato le fotografie, Amos Lelli per avercele spedite, Luigi Lepri per aver ripescato dai suoi archivi l’articolo di Franco Cristofori.

Da: Il Resto del Carlino, 28.01.1984

Alberto Menarini ci ha lasciati. È una grave perdita per chi gli è stato amico, e una perdita ancora più grave per la cultura italiana. Egli era un outsider. Accostatosi ancor molto giovane, per naturale inclinazione, allo studio delle lingue, quando però i suoi studi erano ormai orientati in tutt’altra direzione, aveva saputo conquistare la considerazione e la stima di illustri maestri. Lo attraevano in modo particolare i linguaggi speciali: l’italiano popolare, i dialetti, i gerghi. Le sue ricerche in questo campo gli consentirono di pubblicare nel 1942, per la collana “Studi e Testi” dell’Istituto di Filologia Romanza dell’università di Roma, “I gerghi bolognesi”, un’opera che ancora oggi viene considerata fondamentale. I suoi interessi lo portarono ad avere contatti con esperti d’ogni paese. Se la curiosità di studioso lo conduceva ad esplorare linguaggi di luoghi lontanissimi, il cuore lo riportava sempre alla sua città, che amava profondamente e che vedeva con dolore trasformarsi.

Gli piaceva paragonarsi, scherzando, a un cacciatore di farfalle. Seppure in apparenza dedito a tutt’altra occupazione, egli era perennemente in cerca di parole: le parole, le frasi del dialetto che la gente ormai usava poco o non usava più e che egli sentiva il dovere di salvare da un oblio irreversibile.

Nel 1964, sollecitato dai curatori di una collana dedicata a storia, costumi e tradizioni regionali, riunì cinque suoi saggi intitolandoli “Bolognese invece. Ricerche dialettali”. Era il primo, e forse ancora occasionale, dei dieci volumi che nei vent’anni successivi avrebbe dedicato al parlare della sua cara città. Nella prefazione di “Tizio, Caio e San Petronio. Vicende di nomi nel dialetto bolognese”, uscito nel 1968, Menarini precisava le ragioni della sua impresa: “insistendo nelle nostre indagini rivolte a scoprire e illustrare gli aspetti e i settori più ignorati della parlata bolognese, nonAlbêrto Mnarén int al sô stûdi presumiamo minimamente di compiere opera scientifica (ciò che imporrebbe impostazioni e trattazioni ben diverse) ma soltanto di perorare la causa del nostro dialetto divulgandone in maniera accessibile la conoscenza presso un pubblico che, ignorandone le bellezze, i non banali trascorsi e le originali possibilità espressive, ostenta nei suoi confronti un’indifferenza, o peggio ancora un disprezzo, che non esitiamo a definire ingiustificati”. Ma aggiungeva “pur nella facile leggibilità della sua stesura, questo saggio nasce come i precedenti da faticose ricerche che nulla concedono all’improvvisazione e alla faciloneria”. Le opere via via pubblicate si conservarono fedeli a quell’assunto.

Ebbe pochi amici, ma sicuri e molto cari. Schivo e riservato, gli mancava l’attitudine a far comunella, a partecipare ai clan, a imbarcarsi sulle navicelle politiche. Tutto quel che ricevette, onori, considerazione, affetto, gli venne dalla sua scienza e dalla sua dirittura. Era una gran gioia conversare con lui, tra le pareti del suo studio, rivestite di libri belli e rari ed oggetti raffinati. Ognuno di quei libri (in larga parte di argomento linguistico) o di quegli oggetti, era il movente di divagazioni che rivelavano, ogni volta sorprendendo, la vastità delle sue conoscenze, l’ampiezza dei suoi interessi. Conservava gli appunti sul dialetto in un grande mobile a cassetti. Sulla testata, in ampi caratteri dorati, una sentenza di Racine: “Ne laisser aucun nom c’est mourir tout entier”.

Amava quelle parole e me le aveva additate spesso, quando era ancora in salute. In uno dei nostri ultimi incontri gliele indicai, a mo’ di consolazione. Egli, consapevole dell’ineluttabilità del suo destino, mi fissò, insieme sorridente e mesto, e domandò, forse più a sé stesso che a me: “Srèla pò una cunsulaziån?” (sarà poi una consolazione?).

L’universitè ed Bulåggna, dal 1983, la i dé la làurea honoris causa par la sô sapiänza, e pò la Cmóṅna l’à méss al sô nómm a una strè dal zänter - L’università di Bologna, nel 1983, gli conferì la laurea honoris causa per i suoi meriti di studioso. Gli è anche stata intitolata una strada del centro.


Ala prémma pâgina
Và só