Da: Ai ténp dal pôver Scarabèl

ed: Gaetàn Marcàtt

Dire tutta la gente che venne è quasi impossibile; si vedeva che era morta una persona di una certa rilevanza nella società. Tante gente col cappello a cilindro, tante bandiere, tante firme in un registro, tanti elogi che pareva che il defunto fosse un santo (mentre, a dire il vero, al disgraziato chiuso nella cassa – che non era mai stato uno stinco di santo – ormai non interessava proprio nulla, a parte la messa, di tutta quella commedia, e chissà dov’era la sua anima: forse ad arrostire nell’inferno con poco grasso e pochi odori... di santità).

Ed ecco che successe un fatto che rimase memorabile per tanto tempo. Finita la funzione, la cassa fu portata in spalla fino alla berlina di prima classe, di colore nero e oro, tirata da quattro cavalli neri con la gualdrappa e il cocchiere in costume con la parrucca e il tricorno, mandato dal Comune; di fianco si misero gli amici del morto, dietro la famiglia, poi le bandiere, le corone e tutti gli altri.

Davanti ad aprire il corteo, com’era l’usanza, c’era il sagrestano con la mantella viola ricamata d’oro, ed è inutile dire come il nostro Scarabelli si sentisse orgoglioso; gli pareva di essere un generale in alta uniforme davanti al reggimento dopo una battaglia vinta. Dietro di lui c’era un chierichetto che portava la croce, tra altri due che tenevano una torcia per uno; poi venivano i preti che avrebbero dato l’ultima benedizione al confine della parrocchia e sarebbero poi tornati in chiesa, mentre il morto, con tutti quegli ipocriti dietro, sarebbe andato alla Certosa per il riposo eterno.

Il corteo imboccò la stradina in discesa che da San Giovanni in Monte va in Via Santo Stefano, ma proprio quasi al termine della stradina degli operai avevano aperto un buco in terra da una parte, perché si era rotta una tubatura dell’acqua, così che la berlina passava a fatica. Neanche a farlo apposta, in mezzo a quella strada, si era fermato il servitore di un signore con tanto di giacca coi bottoni d’oro con la corona, che portava un cane a far pipì, e anche qualcos’altro in caso di necessità. Era un cagnone enorme che il padrone aveva portato dall’Inghilterra dopo averlo pagato chissà quanto; era, come si dice, un bull-dog, e si chiamava “Wellington”.

Si sa come sono i cani: prima di decidersi a farla, ci pensano cento volte, forse perché – essendo animali molto intelligenti – vogliono che il luogo in cui lasciano i loro bisogni sia proprio quello giusto. Il fatto è che dal tempo dei tempi tutti i cani fiutano dappertutto, poi se par loro opportuno ne fanno un po’ da una parte, un po’ da un’altra e così via fino a che non hanno terminato. E così, come ho detto, questo servitore portava Wellington a fare i suoi bisogni; quando questo imponente animale, dopo aver fiutato in cento angoli, si va a fermare proprio in mezzo alla strada in cui doveva passare il morto. Il servitore era imbarazzato e non sapeva come fare, perché aveva un bel tirare la catena, ma il cagnone, che pesava forse sessanta chili (e che mangiava, diceva il servitore, come tre esseri umani) di muoversi non ne aveva voglia, e anzi non si muoveva affatto. Aveva stretto le zampe posteriori vicino a quelle anteriori e, senza pensare tanto ai problemi altrui, era tutto occupato a contrarre le viscere. E intanto il corteo avanzava; Scarabelli era già davanti al cane. E il servitore diceva: “Andiamo, Wellington, tiella per la prossima volta, e lascia passare il morto”. E lui no. “Andiamo Wellington, non hai scelto il momento giusto”. E lui niente.

Finalmente, qualcosa uscì, e al servitore venne la speranza che il cane si sarebbe sbrigato. Invece, dopo tanto sforzo, rimase a metà...

Il servitore ci riprovò con le buone: “Ma dai Wellington, taglia a metà! Il resto lo farai un’altra volta”. E lui no. “Wellington, sei una carogna! Mi fai fare una figuraccia, se ti vedesse il tuo padrone te le darebbe...” E lui niente, anzi si aggiustava con le zampe posteriori per spingere meglio.

Erano già dieci minuti buoni che l’illustre defunto, onore e vanto della nazione e della città, stava ad aspettare di andare alla Certosa che un cane di nobile razza avesse fatto i bisogni, quando si scatenò l’apocalisse...

A Scarabelli, che guidava il corteo e si sentiva responsabile per l’ordinato svolgimento della cerimonia, saltò la mosca al naso; assestò un calcione nel sedere al cane, dicendo:

“Ma che ti venga un colpo! Cos’hai mangiato, delle sorbole?”.

Non l’avesse mai fatto! Il cane montò su tutte le furie e dette uno strattone alla catena, che sfuggì di mano al servitore. Si avventò contro Scarabelli, che piombò per terra ma fece in tempo ad alzarsi e a darsela a gambe perché il cane era inciampato nella catena. I chierichetti scapparono via, i preti si nascosero in un portone, il cocchiere con la parrucca e il tricorno, vedendo per un momento la strada libera davanti ai cavalli, dette il via, pensando che, per quanto fosse andata male, era forse il male minore. Ma la strada era in pendenza, e la berlina prese uno slancio che nessuno riusciva più a fermarla. S’infilò a tutta velocità in Piazza Santo Stefano, e di gran carriera attraversò la città per la meraviglia di tutti, e forse anche del defunto che c’era dentro.

I parenti, i nobili rappresentanti, nel frattempo, erano rimasti di stucco, tutti sparpagliati a metà della stradina di San Giovanni in Monte, perché quelli che seguivano non sapevano la causa di tutto quel putiferio; in ogni modo, nessuno aveva tanto fiato da correre dietro al defunto, anche se ne avesse avuto voglia.

Par turnèr al tèst in bulgnai, clécca qué