I dialétt dla
pruvénzia e dintûren
I dialetti
della provincia e dintorni
In ste Sît arénn chèr ed publichèr anc dal materièl só i dialétt dal sått-grópp bulgnaiṡ difarént da quall dla Zitè - In questo Sito ci piacerebbe pubblicare anche del materiale sui dialetti del sottogruppo bolognese differenti da quello cittadino:
Clasificaziån - Classificazione
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Èter materièl par studièr - Altro materiale di studio
Poeṡî e racónt - Poesie e racconti
Classificazione - Clasificaziån
Secånnd la clasificaziån ed Dagnêl Vitèli, vgnó fòra int l artéccol scrétt con Luziàn Canepèri Pronuncia e grafia del bolognese, in: Rivista Italiana di Dialettologia, RID 19, 1995, pp. 119-164, sti dialétt i én:
1) i dialétt canpagnû ed sîra (pr
eṡ. San
Żvân, Bażàn e, in pruvénzia ed Môdna,
Castelfrànc)
2) i dialétt canpagnû ed matéṅna (pr eṡ. Mnêrbi, Bûdri, Mulinèla)
3) i dialétt canpagnû ed såtta (pr eṡ. la Pîv ed Zänt, Galîra e, in
pruvénzia ed Frèra, Zänt)
4) i dialétt muntanèr ed mèż (pr eṡ. Grizèna, Munżón, Dscargalèṡen)
5) i dialétt muntanèr èlt (pr es. Liżàn, Castión di Pêpol e, in
pruvénzia ed Pistòja, Pèvna e Castèl ed Sanbûca)
Secondo la classificazione di Daniele Vitali contenuta nell’articolo scritto con Luciano Canepari Pronuncia e grafia del bolognese, in: Rivista Italiana di Dialettologia, RID 19, 1995, pp. 119-164, si tratta di:
1) dialetti
rustici occidentali (ad es. San Giovanni in Persiceto, Bazzano e, in provincia
di Modena, Castelfranco)
2) dialetti rustici orientali (ad es.
Minerbio, Budrio, Molinella)
3) dialetti rustici settentrionali
(ad es. Pieve di Cento, Galliera e, in provincia di Ferrara, Cento)
4) dialetti montani medi (ad es. Grizzana Morandi, Monzuno, Monghidoro)
5) dialetti montani alti (ad es. Lizzano, Castiglione dei Pepoli e, in provincia
di Pistoia, Pavana e Castello di Sambuca)
Franco Piacentini, Le parole del dialetto di Rocca Pitigliana (in comune di Gaggio Montano)
Stefano Rovinetti Brazzi, Lessico della lavorazione del mais nel dialetto di S. Gabriele di Baricella
Stefano Rovinetti Brazzi, Lessico della lavorazione della canapa nel dialetto di S. Gabriele di Baricella
Daniele Vitali, Les dialectes de montagne entre Bologne et la Toscane. Une frontière linguistique particulière, intervento all'Università di Liegi (Belgio), 24 aprile 2010
Daniele Vitali, Il dialetto alto-frignanese di Torri, in: Nuèter 72, 2010, pp. 320-325
Daniele Vitali, “Le guarzette, Torri, il Frignano e Porretta”, in: Nuèter 69, pp. 33-38
Daniele Vitali, “Il dialetto di Gaggio Montano”, in: AA.VV., Gaggio Montano. Storia di un territorio e della sua gente, Comune di Gaggio Montano e Gruppo di Studi “Gente di Gaggio” 2008, pp. 757-779
Daniele Vitali, “Il dialetto di Porretta Terme”, in: Nuèter 65, 2007, pp. 52-58
Daniele Vitali/Franco Piacentini, “Scrivere i dialetti della media montagna bolognese. Proposta ortografica per il dialetto di Rocca Pitigliana”, in: Gente di Gaggio 32, 2005, pp. 84-88
Èter materièl -
Altro materiale
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo in persicetano
Recensiån ed vocabolèri di dialètt muntanèr èlt - Recensioni di vocabolari dei dialetti montani alti
Giorgio Filippi, studiåuṡ ed Liżàn - Giorgio Filippi, studioso di Lizzano in Belvedere
Al furmintån int la żòna ed San Gabarièl - Il mais nella zona di San Gabriele di Baricella
La cânva int la żòna ed San Gabarièl - La canapa nella zona di San Gabriele di Baricella
I nómm di fónnż int la muntâgna èlta - I nomi dei funghi nella montagna alta
Glosèri ed Stefano Rovinetti Brazzi (int la sô grafî, cfr. såtta) såura la lavuraziån dal furmintån int la żòna ed San Gabarièl, cmón ed Bariṡèla. Ècco l'introduziån dl autåur - Glossario di Stefano Rovinetti Brazzi (nella sua grafia, cfr. sotto) sulla lavorazione del mais nella zona di San Gabriele di Baricella. Ecco l'introduzione dell'autore:
Pubblichiamo una seconda edizione, rivista ed ampliata, del lessico relativo
alla semina e alla lavorazione del mais, già disponibile su questo sito a
partire dal giugno 2008. Rispetto alla prima edizione sono stati approfonditi
gli aspetti tecnici relativi alla semina, alla crescita e alla lavorazione del
prodotto. Nel tentativo di registrare e salvare quanto più è possibile del
lessico e della fraseologia, abbiamo cercato di risalire quanto più è possibile
indietro nel tempo e abbiamo inserito testimonianze sulla lavorazione del mais
prima dell’introduzione delle macchine, nella misura in cui le testimonianze dei
nostri informatori lo consentivano. E ancora una volta, come già spesso nel
corso delle nostre ricerche, ci siamo stupiti della persistenza nel corso dei
decenni e talvolta dei secoli, delle memorie trasmesse oralmente: gli
informatori infatti inseriscono nelle loro testimonianze citazioni, notazioni
tecniche sull’uso di materiali e strumenti, ricordi, fatti e aneddoti spesso
risalenti ai loro genitori e ai loro nonni e così interessanti e vivi che ci è
parso doveroso utilizzarli per la stesura di questo lessico.
Le informatrici, eccellenti parlanti native del dialetto di quella zona, sono
Lodia Regazzi (n. 1922; il nome è abbreviato in LR) e Claudia Stegani (n. 1931;
il nome è abbreviato in CS) entrambe nate e cresciute a S.Gabriele di Baricella;
Ci siamo serviti anche della consulenza di Benito Bertorelle nato a Maddalena di
Cazzano nel 1937 (il nome è abbreviato in BB). Le interviste sono state
rilasciate fra l’inizio di gennaio e la fine di dicembre dell’anno 2008. Ogni
lemma reca la traduzione in italiano, che spesso comprende una breve nota
esplicativa di carattere tecnico, storico od etnobotanico, ed è corredato dalla
trascrizione del passo dell’intervista dal quale è stato tratto o delle
spiegazioni fornite da Claudia Stegani durante la stesura delle singole voci;
entro parentesi tonde sono inserite le integrazioni necessarie a comprendere,
nel giusto contesto, i passi delle interviste. Nel lessico sono stati inclusi
anche termini d’uso comune che, nel nostro contesto, assumono un valore
particolare. Si può ascoltare una delle interviste effettuate collegandosi con
http://stefano.rovinetti.brazzi.googlepages.com/home
Par lèżer al glusèri (secånnda versiån, dal mèrz 2009) - Per leggere il glossario (II versione, del marzo 2009): clichè qué - cliccare qui
Glosèri ed Stefano Rovinetti Brazzi (int la sô grafî) såura la lavuraziån dla cânva int la żòna ed San Gabarièl, cmón ed Bariṡèla. Ècco l'introduziån dl autåur - Glossario di Stefano Rovinetti Brazzi (nella sua grafia) sulla lavorazione della canapa nella zona di San Gabriele di Baricella. Ecco l'introduzione dell'autore:
Questo lessico sulla
lavorazione della canapa nella bassa pianura nordorientale ubbidisce agli
stessi criteri già adottati nel lessico sul ciclo del mais: per ogni lemma
si danno una traduzione in italiano, spesso accompagnata da note esplicative
di carattere storico, economico e antropologico, e i passi delle interviste
che documentano il termine e l’accezione in cui è impiegato. Un trattino
orizzontale seguito dalle iniziali del nome degli informatori indica
l’inizio di una nuova testimonianza; se al dialogo partecipano più
informatori contemporaneamente, le loro battute sono introdotte dalle
iniziali del nome non precedute dal trattino orizzontale. Gli informatori,
ai quali va il mio ringraziamento per la disponibilità e la pazienza
dimostrate nell’intero corso della ricerca, sono i seguenti:
Bolognesi Aristide, nato a S.Bartolomeo (FE) nel 1920
Martelli Leda, nata a S.Gabriele di Baricella (BO) nel 1922
Regazzi Lodia, nata a S.Gabriele di Baricella (BO) nel 1922
Stegani Claudia, nata a S.Gabriele di Baricella (BO) nel 1931
Par lèżer al glusèri (versiån dal
setàmmber 2009)
- Per leggere il glossario (versione del settembre 2009):
clichè qué - cliccare qui
Allora non c’erano i
congelatori...
Alla ricerca di un fungo dimenticato
Testo e foto di Piero Balletti
(Nuèter, N° 56, dicembre 2002, N. 2, Anno XXVIII)
Un paio di anni or sono condussi un’indagine sui nomi popolari con cui vengono indicati i funghi nella terra di Sambuca. L’occasione di tale ricerca fu data dalla preparazione di un contributo naturalistico per il volume Storie della Sambuca, pubblicazione promossa dalla locale Amministrazione comunale. I residenti consultati, per lo più di età matura, fornirono notizie che considerai interessanti e stimolanti.
Raccolsi i nomi locali di quindici specie fungine, scelte fra le più comuni e le più conosciute ai fini alimentari o al contrario per l’estrema tossicità: ed apparve subito evidente che, per la maggior parte di esse, c’era una nomenclatura estremamente variabile. Infatti, in nuclei abitati distanti fra loro pochissimi chilometri o addirittura poche centinaia di metri, uno stesso fungo veniva indicato con nomi diversi. Esemplificativo è il caso del Porcino, detto ciopadèllo a Pàvana, con le varianti ceppatèllo all’Acqua, ceppadèllo a Treppio, cioppadèllo a Pòsola, ciupadèllo a Caviana; mocciardóne al Monachino; ed infine fungo, per antonomasia, a Torri, Frassignoni, Lagacci. Ancora più variabile, da un punto di vista nomenclaturale, la Mazza da tamburo: galéjola a Pàvana, búbbola a Treppio, pisciacáni o barúgiola a San Pellegrino, i fráti a Lagacci, spía a Frassignoni, fungáccio a Torri. Per finire il Poliporo frondoso detto barbagíno a Lagacci, barbajín a Castello di Sambuca, a Pàvana ed a Pòsola, fungagníno a Frassignoni, grífale a Torri ed a Treppio, grífalo al Monachino, grífo o grifóne a San Pellegrino.
Assieme ai nomi dialettali dei funghi ho raccolto gustose e significative notizie sull’utilizzo dei funghi in epoche ormai lontane, testimonianze di eventi vissuti dagli informatori quando ancora erano bambini. Ugo Pistorozzi di Pàvana osserva che una volta si raccoglievano solo i ciuppadèlli, i galétti, i còcchi e i barbajíni: «ce n’erano tanti di questi tipi, perché dovevamo raccogliere gli altri?». E ricorda anche che i suoi genitori lo rimproveravano se raccoglieva troppi funghi; non si poteva utilizzarli tutti ed era poi un peccato doverli buttare via!
Dice Guido Brizzi di Lagacci: «I barbajini crescono sui castagni e pesano fino a nove chili. Allora non c’erano i congelatori..., per conservarli si mettevano dentro una vasca d’acqua e si cambiava l’acqua ogni sette o otto giorni. Tagliati a fette sottili, venivano lavati e lessati; e poi impanati e fritti». Secondo Sergio Cioni di Castello di Sambuca i barbajíni fritti si mangiavano con i nécci.
In questa ricerca, condotta come detto due anni or sono, era rimasto però un “buco nero”, costituito da una specie misteriosa, resistente ad ogni mio tentativo di identificazione: si trattava di un fungo che gli informatori di Frassignoni, Lagacci e Pòsola indicavano come i gózzi.
Secondo i “posolanti” Giuseppe Cecconi e Luciano Bartoletti i gózzi sono funghi autunnali con il cappello di colore crema o marroncino e carne soda, che crescono in tutti i tipi di bosco e si trovano per lo più “a covate”. Conservati dentro recipienti colmi d’acqua che veniva “tramutata” ogni giorno, comparivano spesso sulle tavole nei mesi autunnali, dopo essere preparati fritti oppure “trufolati”. A mia precisa domanda aggiungono che un tale Giovanni, l’unico forse in tutta la Sambuca!, ancora raccoglie questi funghi ormai dimenticati.
Secondo una non più giovane ma vivace signora di Pòsola, «i gózzi sono fungacci indigesti» e lei non dimentica quella volta che, dopo averli mangiati, vomitò ed il vomito non smetteva mai; e «dopo di allora i gózzi non li ho più mangiati».
Secondo Loriano Catani, originario di Frassignoni: «I gózzi si trovavano a partire dalla fine di settembre nei castagneti quando questi erano ancora puliti; crescevano a file o a gruppi, soprattutto lungo le ròste (le ròste sono piccoli solchi che venivano scavati nei castagneti per impedire alle castagne di ruzzolare a valle e per facilitare così la loro raccolta. N.d.A.). Di gózzi ce n’era tanti e mia nonna ne raccoglieva in quantità enormi mettendoli nel grémbio. Poi a ciascun fungo eliminava il gambo, tagliava il cappello a fette e, dopo averli lessati, li poneva nelle cónche sotto le grondaie, ove si raccoglieva l’acqua piovana. L’acqua veniva così cambiata spesso ed i gózzi potevano essere conservati per più settimane. Poi, durante il tempo in cui maturavano le castagne, mia nonna li raccoglieva con un ramaiolo, li metteva in un canovaccio per asciugarli, li infarinava e li friggeva. Una volta cotti diventavano scuri ma la polpa rimaneva soda. E buoni che erano!».
La voce gózzi, presente nelle tre borgate sopra elencate, che si trovano nella valle del Reno, è del tutto sconosciuta in altre zone della Sambuca. Poiché non avevo avuto la possibilità di osservare il fungo “dal vero”, le notizie e le informazioni raccolte non mi permisero di identificarlo.
Poi successe un fatto nuovo; uno studioso reggiano, Ulderico Bonazzi, che sta preparando un Dizionario dei nomi dialettali dei funghi in Italia, mi scrisse chiedendomi di comunicargli i risultati della ricerca effettuata nella Sambuca. Cosa che feci ben volentieri. Egli rispose ringraziandomi ed apprezzando il lavoro da me fatto; mi sollecitò tuttavia ad inviargli il nome scientifico dei gózzi. Stavo per rispondergli (la corrispondenza avveniva tramite posta elettronica) che purtroppo non ero in grado di fornirgli quella notizia. Ma feci prima un ultimo tentativo; mi recai da Loriano Catani con una capace cartella contenente diversi volumi con descrizione ed illustrazione dei funghi italiani. Era mia intenzione fargli esaminare i vari disegni e figure, alla ricerca dell’immagine corrispondente al fungo misterioso, per poterne determinare così il nome scientifico. A dire il vero, non avevo molte speranze. Ma appena gli accennai al probema dei gózzi: «Vieni con me, li ho visti ieri nel castagneto!», mi disse. Salimmo sulla sua Panda 4x4 e ci dirigemmo, per una strada a monte di Pàvana, in direzione della Torraccia. «Speriamo che non li abbiano portati via!», aggiunse mentre si inoltrava fra gli alberi. Lo seguii scrutando, un poco scettico, fra le foglie del sottobosco. Ma dopo poco mi chiamò e dal tono della voce capii che li aveva trovati. Nel cavo delle mani unite aveva dei funghi dall’aspetto massiccio, anche se di piccola taglia; «Eccoli, i gózzi!». A prima vista non li riconobbi, anche se ebbi la sensazione di averli già visti in precedenza. Ritornati a casa, i volumi che avevo portati risultarono utili. Dal portamento robusto e dall’attaccatura delle lamelle al gambo assegnai il fungo al genere Tricholoma; sfogliando invece i “sacri testi” identificai la specie come Tricholoma acerbum.
Ecco un sunto della descrizione del fungo riportata dai vari autori:
Tricholoma acerbum: Cappello dapprima convesso e poi spianato, giallognolo ocraceo, orlo dapprima molto involuto, poi disteso e striato, a carne spessa e compatta, bianca, amarognola ed acidula al gusto, cuticola facilmente separabile. Lamelle fitte, smarginate, che al tocco si macchiano di fulvo. Gambo corto e robusto, superiormente con fioccosità gialline. Habitat: in boschi misti, diffuso ma raro. Commestibilità: secondo il Cetto è commestibile mediocre, ma abbastanza apprezzato in diverse zone. Altri Autori lo definiscono tossico, o al più utilizzabile dopo lunga cottura e comunque molto scadente.
Riguardo alla commestibilità ed appetibilità del Tricholoma acerbum, una posizione alquanto diversa prendono i curatori del volume I nostri funghi, Genova 1981, che scrivono: «(Si trova) soprattutto in boschi di castagno, durante l’epoca di maturazione dei loro frutti, il che può giustificare il loro nome dialettale (in ligure, castagnaiêú). È commestibile, molto adatto alla conservazione. Il Castagnaiolo non è dappertutto conosciuto ed apprezzato come in Liguria, ove è oggetto di una ricerca assidua, soprattutto per le sue ottime caratteristiche di fungo adatto alla conservazione, anche se il sapore è un poco amarognolo».
Lieto del felice esito della “operazione gózzi” comunicai al ricercatore reggiano il loro nome scientifico, corredando lo scritto con una fotografia degli stessi.
Per avere tuttavia la certezza di non aver preso una cantonata, spedii la foto anche a Nicola Sitta. Belvederiano di adozione, Nicola è un micologo professionista ed uno dei più preparati conoscitori del mondo dei funghi in Italia, sia sul piano teorico (fanno testo importanti pubblicazioni) sia sul piano pratico di riconoscimento di specie fungine. Gli chiesi conferma della correttezza della mia determinazione, operazione che è sempre piena di insidie per l’appassionato dilettante. Egli, con tacitiana concisione, rispose: «Evidentemente Tricholoma acerbum! L’ambiente del castagneto è ulteriore conferma».
Ed a quel punto ritenni la storia dei gózzi veramente finita.
Poeṡî e racónt - Poesie e racconti
Dialàtt ed Mulinèla - Dialetto di Molinella
Poesie di Claudio Pasi dedicate agli animali e pubblicate dalla rivista Filigrane
La lîvra
Cla vôlta ch’a ciapé sòtta la lîvra Mo
al fó pò un ètar che con un curtèl |
Al pasarén môrt
Zighê zighê, divinitè dl amòur, (da Catullo, 3) |
Di ètr uṡî Al
fó un uṡlén ṡbliṡghè żò
par la câpa
Cla gâża che la bchêva i braghén róss
Dòpp ch’i avêvan finé ad ṡghèr al prè, Ai
piaṡêva d andèr a zòp galètt, |
Dialàtt dla Pîv - Dialetto di Pieve di Cento
Poesia dedicata al conferimento della bandiera arancione alla Pieve da parte del Touring Club nel 2019 (per saperne di più)
ed/di Edoardo Bargellini
La Pîv
Stà pûr cuntĕnta,
oh Pîv, che t ìa acsé granda che in tótta la pruénzia, fén da dnanz a Môdna, San Żvân, infén a cl'ètra banda, sŏul té bandîra ed culŏur mlaranza!!! |
Con quâter bèli
pôrt ch'i t fan grilanda d intŏuren, la tô cîṡa, quall ch'avanza dla ròca e tótt al rèst, t ìa, e ala granda, na bèla zitadénna! E la speranza |
l'é qualla ed
migliorèr, ed cràsser anc, cavalcànd l'ŏnnda ed ste prèmi specèl; se un quèlc turéssta as pôrta pó dû franc |
nó a i tulĕn, a n
s n avĕn pó méa par mèl! Sŏul un guâi a g é suspĕiṡ, parchĕ g n é un branc: che biṡgnarêv cupèr tótti el zinzèl! |
Poesia dedicata alla riapertura della chiesa di Pieve il 25 dicembre 2018 (era stata chiusa a causa del terremoto del 2012)
ed/di Edoardo Bargellini
Al Cruziféss
El spén in cô,
inciudèdi el man e i pía, t ìa al nòster cruziféss, quall di mirâcuel: par té in dimónndi i vînen fén da vía e i pivîṡ tótt i t tînen cme un urâcuel. Pr al teremòt ch'ag fó sî ân indría i t tirénn żŏ da sŏuvr al tabernâcuel; e i t an tgnû pió d un lósster fòra vía, come t fóss stè par socuànt ân in fêri, par psĕir giustèr, e brîṡa bâsta ch'sía, la cîṡa, vésst che al dân l êra un quèl sêri. Adès la tô cà l'é turnèda a pòst e dŏpp avĕir pasè ste putifêri et pû turnèr chiêt chiêt ind al tô pòst. Zêrt a sperêven ch'et turnéss pó prémma mo ala fén la và bĕn acsé, e piotòst |
avĕn da ringrazièr
che t sépp là in zémma, prémm testimòni. Sé, parchĕ da bŏn al fât pió grand ch'al m à ispirè ste rémma l é al pensèr che dala tô puṡiziŏn quî dla mî râza té t ai è vésst tótt, da ormâi bèle pió ed trĕi generaziŏn, ind i mumént pió bìa e in quî pió brótt: ch'fóss crĕiṡma opûr batàżż cm êra custómm, comegnŏn, matrimòni opûr un lótt, ch'fóss pr un Pâter o sŏul pr inpièr un lómm, té t êr sĕnper là só, cŏn i tû ûc' trésst e la tô fâza bâsa quèṡi cómm s'et vléss dîr: "a n sŏn inción... sŏul al Crésst". A vlĕir cuntèr i fât acsé cum i én a dégg che sŏul té t sè quant t an è vésst |
di Govôni, Cavécc'
e Canpanén in zintunèra d ân, dnanz al altèr, da quand i t truénn in cà da Guidizén... E incúa, par mèż ed té, a psĕn festegèr un gran mumĕnt: la Pîv, ch'l'é al nòster branc, cŏn i ajût, l'onestè e la vójja ed fèr, l'é fâta a nôv; e nó a sĕn ón ed fianc a cl èter, incúa. Écco la morèl: che d chi èter an s pòl brîṡa fèr da manc. Un tructén d egoîṡom l é normèl, e anc se zertón i n an un pôc de pió l inpurtànt l é capîr che, bĕn o mèl, ón al mŏnnd al n é brîṡa da par ló. Pensĕn al cà ch’i én dĕntr al quâter pôrt: i én zĕnza fondamĕnta e i stan só parchĕ ónna ed fianc a cl'ètra i s dan supôrt. |
Dialàtt d Altai - Dialetto di Altedo
A j êran zîrche a cavâl dal ‘70. An dégg brîṡe l’ân prezîṡ e an fâg brîṡe i nómm, parché an voi brîṡe stuzighèr j arcôrd e manchèr ad rispèt a inción, vîv e mùrt)
Altài. L’ûltme tamplè
ed/di Enrico Grimandi (cum l à scrétt l autåur/nella grafia dell'autore)
Quant un vàdduv as
turnève a maridèr a j êre l’uṡanze ad fêr la tamplè ai spûs. I bulgniṡ ad
zitè i la ciâman “maitinè”, mo l’è sänpar qualle. Cum a vdrî in sêguit ….
una gran gatêre.
Un cuntadèn cal stève sóbbit fôre dal paaiṡ e cl avêve bêle maridè da un pèz
al såu fiôli, l avanzé vàdduv e sebàn cal n avéss quèṡi una stantìne, l
avêve anc in gîr di ṡburziglèn (adèss as dirè in itagliàn “tempeste
ormonali”) e al pinsêve ad turnéras a maridèr.
As dè un’ucè d intåuran e a dîr la veritè an i êre brîṡe un gran ché a
dispuṡiziòn cal fóss adât a lò e che äli piaṡéss. Dal vàddvi ai n êre una
bone partîde, mo j’êran tótti o tròp scalastrè o con di anvudèn d arlivèr o
con d ali ètar dṡgrâzi a man. Al n êre pròpi brîṡe al chèṡ d andèr s a
méttar di pinsîr. Dal rèst as rindêve cåunt can psêve brîṡe pretàndar dla
rubîne frassche e as cunsiè coi sû amîg.
La ciâcre l’andé fôre e un quaicdón as méss in mèż a fêr da rufiàn e äli fé
nutèr c a j êre la sêrve d un dutåur, zîrche dla sô etè e in salût, cl an
avêve mai avò maré e fôrsi gnanc l ambråus !
Insòmme par fêrle cûrte, i rufiàn i lavurénn bän e j i méssan insàmm. E pò
ai véns fôre al publicaziòn !
Alåure ai parté l organizaziòn dla tamplè e as riuné al cumitèt int l
ambulatòri dal dintésste. Tótt d acôrd, j al numinèn presidänt, anc parchè j
avêvan pôre ad fêri dspèt … vésst ch l êre lò a trapanèri e a cavèri i dént
!
As furmé quâtar scuèdar e ogni scuèdre l’avêve al sô capurèl.
La prèmme, cl avêve d arivèr da matîne, l êre qualle di quêrc’ e dal pniât.
E vuètar a dirî: “ Bän mò cs avêvle da fêr ? Da cûṡar al tajadèll ?”
Nò, an i avî brîṡe ciapè. L avêve da fêr ciucher i quêrc’ , al pniât e i
pniatèn.
La secònnde l’ êre qualle di stuflarén e di canpanén e l’avêve d arivèr dal
in só. A j êre di stuflarén ad tótti al fâte. A tachèr d’ äli ucarîn ai
stuflarén con la balîne int l’acue, chi fêvan al vèrs di ruṡgnû, in fén a
dal pîv ad tótti al miṡûr fâti in cà con la scôrze di vénc. E pò a j êre i
canpanén d ogni sôrte fâte e i canpanàz dal bargamîn.
La terze l’êre qualle di bidón ad lâte cl’avêve da gnîr d in żò.
Con di pîz ad laggn l’avêve da ṡbatar di bidón ad benzîne tajè a mèż, di
bidunzén e di buslût ad lâte ad tótti al miṡûr, cme di tanbûr.
L’ûltme, cl avêve da gnîr da sîre l’êre qualle di ciûc e di bóss.
L’avêve suquànt canón (1) e di parpignàn (2) e pò a j êre anc un ciarrg cl
avêve tòlt in prèst (d arpiât) la scarabâtle al canpanèr (3). Int la scuedre
as êre pò żuntè un quaicdón con dal castagnôl e di cic-ciâc, mo brîṡe con la
stiòpe : al dintèsste al l’ avêve pruibè parchè l êre tròp priglåuṡe.
E vuètar a dirî: “ Bän mò l’è un’urchèstre !”
Ói bän, stavôlte a j avî ciapè! L’êre pròpi un’urchèstre, anc parché al
dintèsste l avêve cunsgnè ai quâtar capùrî un fujàtt pròn con i tenp d aziòn
d ogni scuèdre. Un sparté … da òpere!
Al dé dal matrimòni, finè al nòz, vèrs sîre, stra al lòmm e al scûr, as
tachè a vàddar in paaiṡ un rigîr c al n êre brîṡe normèl. As vdêve pasèr dla
żänt a pî con di scartûz sänpar grànd e in biziclàtte con di spurtón atâc al
manòbri e tótt i taṡèvan ! Inción dscurêve e l andêve par la sô stre, in żò,
in só, in a matîne e in a sîre, sänze dîr gnìnt.
J andèvan tótt a tûr puṡiziòn in mèż al frutett ca i êre tuchè, a zirche
tarṡant mêtar d intåuran a la cà di spûṡ. Alåure Altai l êre tótt un frutett
!
Quant al guintè bûr e int un gran silànzi as sintêve såul i ranûc’, al
dintèsste al dè l åurdan ad tachèr.
Alåure ai partè la scuèdre di ciûc e di bóss e sóbbit dòpp qualle di bidón e
di buslût.
Dòpp a sucuànt minûd i dṡméssan ad pâche e ai tachè a sunèr la scuèdre di
stuflarén e di canpanén e a j andè drî qualle di quêrc’ e dal pniât.
In st mäntar che al scuèdar is dèvan da fêr a fêr dla gatêre, dàndas al
canbi, cum a j êre scrétt int al fujàtt che al presidänt l avêve dè ai
capùrî, pian pianèn al zairc al s asvinève a la cà di spûṡ, arpiatè in mèż
al frutett.
Quant j arivèn a una cincuantìne ad mêtar da la cà di spûṡ al scuèdar is
farmèn e i tachèn a fêr dla róggie tótti quâtar insàmm.
Av psî imażinèr al diavlêri stra canpanèn, quêrc’, bidón, ciûc, bóss .. e
anc quel ètar. Ròbe da fêr guintèr mât e fêr stiupèr äli uràcc’ e al zarvèl.
Alåure a s apiè la lòmm int la cåurt adnanz a cà, i spûṡ i vîrsan la pôrte e
vensan fôre con un zucòn ad vén chi pugénn in vatte a una calâstre che j
avêvan preparè prèmme (as vadd che una quaic spéjje äli avêve infurmè).
Quant al vésst acsè, al presidänt dintèsste al dè l åurdan ad farmèr incôse.
I “sunadûr” i dṡméssan ad tamplèr i sû strumènt, i saltén fôre dal frutett
da tótti al band e, tótt cuntént, i tachén a fêr j auguri ai spûṡ e a bòvvar
a canèle dal bigât al vén dal zucòn. Sughè al zucòn, ognòn al turné a cà sô
coi sû żdûz e i spûṡ i psénn apusèras in pèṡ.
La tamplè l’êre finé ! L’êre duré såul un’ åure parchè i spûṡ j êran stè al
żûg ! S j avéssan fât i sparfidiûṡ, ins fòssan brîṡe fât vàddar e i n
avéssan brîṡe ufért da bòvvar… alåure sé che la tamplè la srêv andè drètt
infèn a matîne. Fôrsi l è par quàst che i bulgniṡ ad zitè i la ciâman
“maitinè”!
1) Canòn (pl. canón) : I êre un cadnàzz atâc a un âs che, con la stàsse môse
cme par cadnazèr un óss, as i fêve ṡbàtar la pónte in vatte a una cupàtte ad
fèr in duv a j êre un méssti ad såulfne e pòllvar naigre. Al fêve l efèt d
na stiuptè e i cuntadén j al druvêvan par ṡmarir i sturnî int al furmànt e
int l û.
2) Parpignàn (pl. parpignàn) : l êre una frósste longhe ad curàm che, a
savairle druvèr bän, la fêve al ciòc e las druvêve par der sò al cavâl dla
dumadåure.
3) Scarabâtle (pl. scarabâtal) : l êre un âs con dal manàtt ad fèr atachè
con di ucètt e, scuduzàndal, al manàtt i ciuchèvan in vatte a l âs. As
druvêve in cîṡe in pòst dal canpèn quant , int la Stmène Sante, al canpèn j
êran lighè.
Andrícco Mazalòm
A j êran zîrche a cavâl dal ‘30. A j êre dla gran miṡêrie in gîr!
Altài. L asèlt al vapurén
ed/di Enrico Grimandi (cum l à scrétt l autåur/nella grafia dell'autore)
A j êre trai scuèdar.
Qualle di insavunadûr , qualle di ṡmadunadûr e quale di arpghén.
La prèmme a méttras in aziòn l êre qualle di insavunadûr. L êre messe insàmm
da quâtar o zénc cìnno che j avêvan ciufè d arpiât sucuànti scâi ad savòn da
bughè int la bugadarî ad famajje. Las mitêve in aziòn quant a j arivêve ad
cåurse da la stazion d Altài al cìnno ad vedatte con la nôve che l ûltum
bruzâi l êre bêle andè in paiṡe e l êre drî a dscarghèr. La staziòn l’êre
zîrche a mèż chilometar da la râte ad Sêvne (1) e ans psêve brîṡe tachèr
tròp prèst a insavunèr parché se nò l’ insavunadûre la se schêve e l efèt l
êre piò ardótt.
Vuètar a dirî: “Bän mò csa farêni sti cìnno col savòn aṡvèn a la râte ad
Sêvne? Is lavaràn o fôrsi, par ṡburdlèr, i lavaràn al sumàren ?”
Nò, an i avî brîṡe ciapè ! Is preparèvan a insavunèr al rutai !
E vuètar a dirî : “Mò che brèv ragazû chi tinan natte la ferovî “
Nò, an j avî brîṡe ciapè gnanc stà vôlte e adès av dégg al parchè e al
parcòmm.
Da agòst a utàbar al vapurén che da Malalbêrg l andêve a Bulaggne pasand da
Altài, Bariṡèle e Mnêrbi, l avêve sänpar sucuànt vagón avêrt in duv i
carghèvan al barbabiétt pr al zucarifèzzi ad Bulaggne, cl êre pròpi lè ad
drî da la staziòn zentrèl. I êran di vagón spezièl con la guardiòle; un
gabiòt tachè a l ûltum bandón dal vagòn in duv ai stève al guardiàn
frenadåur, drett in pî cme un sardón in scâtle. Quant al vapurèn, coi vagón
carg ad barbabiètt, l arivêve al pônt cal cavalêve Sêvne al tachêve a ṡbufèr
e al fêve una gran fadìghe arampgàndas sò par la râte.
Imażinèval só pr al rutai insavunè ad frassc che ogni tant j i fêvan dèr un
quàic ṡbliṡgòt ai rudón. As pò dîr che int la râte l andès dabòn a pâs ad
lumèghe.
Alåure as mitêve in ôvre la secònnde scuèdre: quale di ṡmadunadûr. Òt o dîṡ
ragazù un pô piò grandèn, arpiatè ad drî dal zèd ad spèn bianc ad bande dla
râte, i tachèvan a tirèr di sâs e di madón al guardiòl par mod che i
guardiàn in s insugnèsan gnànc ad mèttar fôre al nèṡ. I ṡmadunadûr is
ciamèvan acsé parché quant i finêvan al muciadèn ad sâs che j avêvan
arpiatè, tulandi vî da la ferovî, j andevan a madón. E lè ai n êre infen c
as vlêve… e pò l’êre anc tère gròse !
In st mäntar che i povàr guardiàn i stèvan bän asrè int al guardiòl par vid
d an ciapèr una ṡmaduné int la frònt e al vapurén al s arampghève sò par la
râte, a j entrerêve in aziòn la tèrze scuèdre; quàle di arpghén.
Étar quâtar o zénc ragazù, i pió sparlungón, i saltèvan fôre d ad dòpp dal
zèd con di arpghén lighè ad cô da una pêrdghe e i tirêvan żò dai vagón tótti
al barbabiétt chi psèvan prème che al vapurén al cavalés Sêvne.
Quant l asèlt l êre finé e al vapurén l êre bêle adlà da Sêvne e vî cl
andêve a la bâse vers Bariṡèle un pôc piò alżîr, tótti al squèdar i fêvan al
pèrt dal barbabiétt spargujè ad bande dla la râte. J asaltadûr i stèvan
quèsi tótt int la Cåurt ad Piâzz (2) e i turnèvan a cà in dû e dû quâtar con
una brazè ad barbabiétt che i tajèvan a pzulén col pudàt e pò i dêvan da
magnèr par sucuànt dè ai cunén, al ninén e al galîn.
L êre tótte pôvre żänt che con chi dû suldén chi fêvan só vindànd i cunèn,
äli ôv e i capón al pulinaròl, i psêvan cunprèr un grinbalòn nôv dal marzèr
o fêr fêr al calzulèr un père ad scarpén pr i fangén. Col ninén invêzi, una
vôlte inftè, una famajje la tirève inànz un ân.
L asèlt al vapurén a la râte ad Sêvne da pèrt d’una ghènghe ad ragazù, con
la rubarî ad sucuànti barbabiétt, a la fén al dêve una man a un’economî da
miṡêrie e tótt, in famajje e int al paaiṡ, i srèvan un òc ... e anc tótt dû
! Anc i carabinîr.
Tant al barbabiétt di cuntadén j êran bêle stè bṡè a la paiṡe dla staziòn d
Altài; chi armitêve int al paiṡ j êran såul i sgnurón, padrón dal
zucariffèzzi ad Bulaggne e a inción…. ai gnêve di scróppal.
(1) Sêvne : Al canèl ad Sêvne
(2) Cåurt ad Piâzz : Burghè ad brazént
Andrícco Mazalòm
Dialàtt dla Ciṡanôva - Dialetto di Decima (frazione di San Giovanni in Persiceto)
La Cumediôla dal Dialětt dla Ciṡanôva
ed/di Ezio Scagliarini - Ascolta il sonoro
Canturlén I Ind al bèl mèż dla nòt quand l é pió bûr, da sucuànt dé a sintîva cmé un laměint ch’l um żdêva dal prémm sòn, quěll ch’l é pió dûr. A capirî ch’scagâza in cal muměint! E tótti al nòt as ripetîva al fât, e sěnper quêṡi um gnîva un aziděint. Avîva bèla pòra ed dvintèr mât, pŏ ai ŏ pinsè a na quèc instariarî o al dièvel ch’al vléss gnîr par fèr un pât. A sŏun parfén andè ind l’abazî, dai frè dla ròca, pŏ m sŏun fât bandîr, mó a n ŏ bṡa pêrs ste gran malincunî. Al mî dutŏur al m à savó sŏul dîr che a zěnna an và bṡa běin gnòc e friżŏun e par medgénna un quèl par digerîr. Mo l’ètra nòt ag fó l’apariziŏun e adès a vói cuntèruv cum l’é andèda: Avîva apĕnna détt al mî uraziŏun, la pôrta běin ciavèda e cadnazèda, i scûr dla fnèstra srè con la marlĕtta, al can lupén lé fòra a fèr la bèda, che ind la mî stanzia ag fó cmé na sajětta e sóbbet dŏpp la vŏuṡ dla malatî. Mé ai ŏ curâg’, mo m vêns na gran caghĕtta “ajût - a gîva - ajût o mâma mî!”, a m sŏun sfrunblè vêrs l óss, ṡvêlt cmé n livrén ch’avîva sŏul la vójja ed scapèr vî “Ag é un fantèṡma, al dièvel, n asasén!” A gîva con la tèsta in gran burâsca e dala pòra am véns un bèl ṡmalvén, acsé a casché cumé un côrp môrt al câsca |
Canturlén II Al bichîr d âcua, quĕll dla cumudénna al m arivé ind la fâza al inpruvîṡ, mó s vědd ch’la cunté pôc la bagnadénna, parchě a sinté dû s-ciâf ind i bajîṡ. Mé a n arévv vló vrîr òc’ pr inción mutîv, mo dŏpp a èter dû fôrt e dezîṡ la pòra ed ciapèrn anc di pió catîv l’um fé guardèr la mî apariziŏun ch’mulêva ṡmataflón da òmen vîv. “Dî só, g’métt mŏ d busêrum, bèn dabŏun? - A g gé quand um g’mité la tarmarôla - Picêrm a mé ind la mî abitaziŏun? E pŏ ind la fâza, ch’a sŏun bèla viôla? Fantèṡma o nŏ al n um piêṡ pròpi brîṡa, métt żŏ cal man, finéssla cŏn ste gnôla.” E pŏ andé drétt, livàndum só in camîṡa: “ît fôrsi un mî parěint, un antenè? Epûr a n ò fât dîr dal měss in cîṡa! O ît l’âlma inconsolâbil d un danè?” E in st mèntr a m al sŏun vésst ed banda al lèt: l îr’un nunéin con di cavî arżintè e al parîv’ón ch’l avéss biṡŏggn d afèt, con ûc’ luṡént ch’i stêven par zighêr. Mé a m sŏun cumòs a věddrel in cal stèt, e alŏura a gé: “Parchĕ m ît gnó a picêr? Dîm mŏ chi t î, che t um fè tanta pěnna che mé s’a pòs a t vrévv pròpi ajutêr.” E s’avéss psó l arévv ciamè anc a zěnna. Mé pió a g guardêva e pió a pinsêva: “A l cgnŏss!” Mo s’a l cgnusîva, mé al cgnusîv’apěnna e ló al c’curé, dŏpp a dû cûlp ed tŏss. |
Canturlén III
“A t ŏ dè żŏ i pulén par vî t at żdéss, che t îr indurmintè pió dl urdinèri, parchě stasîra a vói che t um capéss; dal mèl a n t in vói brîṡa, anzi al cuntrèri: seběin ch’a l sŏ che té t î un farabîr, a sŏun vgnó qué da té par c’cŏrrer sêri.” E pŏ cum s’l avéss lèt ind al pinsîr: “Se té t an um cgnŏss pió l é cŏulpa tô e quěsst l é al quèl che pió l um fà sufrîr.” Mé ai ŏ pinsè: “Puvrětt, l é bèla ed cô ch’al và in arâdig fôrsi par tiṡî”, e a g ŏ détt fôrt: “Mo mé a n ŏ gnanc détt ô, e té fantèṡma dîm che angarî òja mâi fât a un vèc’, mé, sěinza vlěir e infén dîm al tô nómm se té t sè al mî”. “Cgnŏssrum par té l arévv da èsr un dvěir parchĕ t î nè e pŏ t stè qué a Ciṡanôva, mé a sŏun al tô dialĕtt, s‘t al vû savěir!” A pinsé sóbbit: ”Quĕssta mŏ l’é nôva, stu-qué l é mât cmé un ṡdâz pôver vciarlén, a fénnż ed dèrg a mĕint” e a gé par prôva: “Mo běin, mo dît dabŏun, al mî bŏun vcén? s’t î al mî dialĕtt a t ŏ sĕnper vló běin parchĕ t al sè ch’a sŏun un dezimén e a Ciṡanôva tótt a sěin par běin, na zirudlénna a n t l avěin mâi neghèda, mé a l dégg par fèrt capîr cm’at rispetěin, mo dî bĕin só, mé a g ŏ la pôrta srèda e a un zêrt muměint t îr dal bandŏun dal lèt. Cm’èt fât a gnîr da mé, dîm mŏ la strèda ch’a t pòsa pardunèr anc s’l é un reèt”. |
Canturlén IV ”Al mî destén l é sgnê - al cminzé a dîr - e quěssta qué l’é l’ûltma mî ucaṡiŏun parchĕ dal tótt mé a n vrêv ménga murîr, e Quĕll che d tótt i mónnd l é al Padrŏun alŏura al m à conzès al deṡidêri ed fèrum vĕdder qué int n’abitaziŏun. Cum'ai ŏ fât l é anc par mé un mistêri mé a îra ind al tô zócc, ind al zarvèl, a îra ind n angulén, cmé srè ind l armèri, e vgnagànd fòra a vdîva al tô rudèl e l é par quĕll ch’t um sintîv lamintèr, che par mî cŏunt lé dĕintr ag manca quèl!” “Běin mo csa dît, e adès cm’òja da fèr? Êl un quèl grèv? Mo îria acsé da cén?” “Ala tô etè l é méi che té t lâs stèr, a t manca un quèc rudlén, mo i pió cinén, se inción s n acôrż et pû canpèr méll ân che quî eg g é armèṡ a t i ŏ lustrê a puntén, stà mŏ trancuéll ch’al n é bṡa un gran malân”. E mé: “A t ringrâzi, dîm un èter quèl, pr in du’ît vgnó fòra, sěinza fèr di dân?” “Mo dala bŏcca, par mé l é normèl, e sóbbit dŏpp um fêva chèrn e òs in môd che té t an sintéss bṡa dal mèl.” A séntr acsé um sŏun anc pió cumòs e ai ŏ pinsè ch’al géss la veritè, acsé a g ŏ détt: ”Farŏ tótt quĕll ch’a pòs, mo chèvum l’ûltma mî curioṡitê: dala scagâza mé a sŏun scuêṡi môrt, ît vgnó da mé sŏul par fatalitê?” “T ag è ciapè, ch’avěin tirê la sôrt.” |
Canturlén V “Tótti al furtóun al tŏcchen sěnpr a mé! S’t um tîr in bâl, perŏ, mé a sŏ balèr: té dmàndum quèl, t at sintrè dîr ed sé!” “Mé prémma d ónna a té a t vói bravèr parchĕ ai tû fiû t an g ĕ bṡa insgnê l dialĕtt…” Mé a salté só: ”Bṡa vlěirum cundanèr, che té t al sè, cmé lĕingua t î un pô vcĕtt, adès as ûṡa invêzi ed té l inglěiṡ… …cal dòn, t al sè, bṡŏ’ tûri cŏl mujĕtt… a insisté un pôc e dŏpp um sŏun arěiṡ.” E ló: “A capéss, che ste generaziŏun l’à da savěir l inglěiṡ e anc al ciněiṡ, mo a n srévv bṡa mèl mantgnîr al tradiziŏun, almànc un pôc par psĕirli tramandèr. In mèż a tanta globaliżaziŏun al dé d incû al lĕingv bsŏggn’inparèr e ai ŏ piaṡĕir parchě ali én mî surèl, mo i dialétt i n s pòlen bṡa c’curdèr! Fra nó e lŏur an g é mâi stè duèl (e ch’am riṡûlta, gnanc fra nó fradî) e pió in savî, pió mé um chèv al capèl! Perŏ l arcôrd di ûṡ dal tĕinp indrî l à da fèr pèrt dla vòstra umanitê, bṡŏggna evitêr che al tĕinp l i pôrta vî!” Qué a l ŏ interŏtt par dîr la mî idê: “Fra i dialétt ch’avěin nó qué d intŏuren um sà che t sépp fra quî pió furtunê: dimónndi it c’cŏrrn in cà e par cuntŏuren con té dialĕtt dal rémm as piêṡ ed fèr ch’a fĕin pió zirudèl che pan un fŏuren!” “L é vĕrra - al gé – e a pòs sŏul ringrazièr”. |
Canturlén VI “Peppîno Urtlàn e anc Òscar Muntanèr - al gé con emoziŏun al inpruvîṡ – mé a stâg insĕmm a lŏur a ciacarèr in mèż al sô ruglětt in paradîṡ, mo ai vûster żûven ch’i an ste gran pasiŏun a vói dîr quèl a lŏur fôrt e dezîṡ: Cumé pizón ciamè dal furmintŏun a n arduṡî dla żĕint lé par cranvèl ch’i ascŏulten zirudèl a profuṡiŏun! Al quèl l um fà cuntĕint cumé un fringuèl, mo mé pió dal cranvèl a vrévv durêr e ṡluntanèr al mâsm al funerèl! Coi mîż d adès as pòl anc registrêr, e scrétt la zirudèla běin pulîd, incôsa insĕmm biṡŏggna pŏ archiviêr, e par ch’l’an vâga pêrsa mé a v invîd a tgnîrla in bibliotêca lé al sicûr, che inción pòs’arvinêrla par diṡguîd, par vî ch’la sèlta fòra ind un futûr quand ind al mŏnnd ag srà sŏul un linguâg’, par dimostrèr cum l îra al dialĕtt pûr. E alŏura bṡò’ fèr bĕin tòtt i pasâg’ e scrîver in dialĕtt con coerĕinza, che l itagliàn an fâga inción cuntâg.” Mé a salté só, tuchè ind la mî cusiĕinza: “Una quèc vôlta ind na zirudèla dialĕtt e itagliàn in cunvivĕinza a g i mitěin, acsé la vîn pió bèla, e la fà rédder, séppet mŏ sinzêr”. Mo ló: “S’a inbastardî la mî favèla, a ridrî vuèter, mé l um fà zighêr!” |
Canturlén VII “E pŏ - ló al cuntinué - a vói anc dîr che i vêrs i vôlen lóng tótt quant prezîṡ, e in cla partîda qué am pèr d capîr ch’a n sîdi brîṡa tótt dal stĕss avîṡ, in môd che mé a zupîg con tótt dû i pî, e quĕsst s’a parmitî par mé l é un sfrîṡ, mo qué a stâg zétt, che al canp al n é bṡa l mî.” “Um sà ch’et cměinz a avĕir un pô d pretĕiṡ, t avîv apĕnna détt un pôc pió indrî - a gé pŏ mé ch’a m îra scuêṡi ufĕiṡ – che al lĕingv e té a sî cûl e camîṡa. Èt détt acsé o t òja mèl intĕiṡ?” “Mé sé, a l ŏ détt, a n al nêg pròpi brîṡa, mo par andèr d acôrd, cmé fra i umàn, se ognón al stà ind al sô, la pèṡ l’é d ghîṡa!” E pŏ ló l andé d lóng: “A vói na man par vîd ch’i scrîven tótt in cla manîra…” Mo qué mé a salté só: “Và pian, và pian, s’et vû anc quĕssta, mé a t dégg bôna sîra! T an vrè méa tótt chi séggn sŏuvr al vuchèl, che dŏpp a lèżr as rŏunp anc la dintîra? Mo nŏ, quěsst qué l é un quèl da inteletuèl!” “Al n é bṡa věrra, râza d n ignurànt! L é ŏura d scrîver tótt in môd uguèl! Stà aténti a quěll ch’a t dégg, ch’l é inpurtànt: tulî só l rêgol che pŏ andrî vî léss, l é fâzil pió t an pĕins, a stâg garànt! Tè dîl a tótt, a vrévv che t al żuréss! Parchě an g é n’ètra strèda o n’ètra cûra par evitêr par mé l’apucaléss e pŏ in pôc těinp la môrt scuêṡi sicûra.” |
Canturlén VIII “Par mé và bĕin, a żûr ch’a t dâg a měint, perŏ par chi èter, mé a n dégg gnînt a inción! Parchĕ se mé a tîr fòra l arguměint, ‘ mo bèdt a té!’ - dirà d sicûr quelcdón - Ît gnó da nó par fèr al milurdén? Mo té chi ît, par rŏunpr acsé i quajón? Mé a fâg cm’um pèr, ch’a sŏun pió genuén!’ E pŏ, chi pòl mâi crědder a ste stòria ch’la pèr na fôla fâta pr i putén?” E ló: “Mé a n vĕdd brîṡa tanta bòria! A vŏuṡ o scrétt té drôva al tô parôl, par fèr in môd ed psĕir cantèr vitòria, a g pĕins pŏ mé a méttrig al tarôl! Mé a starŏ d là a vědder e a dèrt ajût, a méttr al ŏurden tô tótt quěll ch’ag vôl; e pŏ par dèret n èter contribût a métt só la tô strèda un gran zarvèl studiŏuṡ dal lěingv, al miŏur in asolût, ón ch’al sà d léttra, un zêrt Dagnêl Vidèl, ón che i dialétt al scòsa dala guâza; té dâg a měint a ló, ch’al stròIga quèl! E guâi a té s’et vléss tajèr la lâza, che adèsa mé a sparéss, mo al sŏ in du’t stè, e tótti al nòt i srénn ṡbarlón in fâza!” Pŏ l um guardé con ûc’ pên ed buntè; mé a l arévv vló strichêr ind un abrâz mo in st’měinter ch’a t al dégg al s é scuajè e pŏ um sinté ind n’urĕccia cmé un ṡvulâz e a m artruvé canbiê, ch’a n sŏun pió quĕll; andé ala pôrta a vrîr tótt i cadnâz, e pŏ andé fòra a věddr al zîl e al strĕll.
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Al piât ed turtlén d Ezio Scagliarini
Quand a suné meżdé as psîva sénter
Mé m sòn sidó al mî pòst e in cal mènter
E intànt che mé ag guardêva pió d avṡén
E sòt’ai dênt immèns l é stè l savòur |
Il piatto di tortellini di Ezio Scagliarini
A mezzodì potevi già sentire
Seduto mi son visto poi
servire
E mentre lo guardavo da vicino
Ed al palato immenso era il sapore |
Al zío americàn
ed/di Ezio Scagliarini
I
Una matéṅna in Uṡa, Springfield Mas., II
I témmp i îrn ed miṡêria a Ciṡanôva III
Ind la sô léttra al zío l avîva scrétt: IV
Che maravèja granda al bastimènt, |
V
Quand l îra chèlm al vènt, immèns e pèra VI
La fèsta la scupié e chi cristiàn, VII
Al fó pó aîr, un dé ch’piuvîva fôrt, VIII
“Edmàn al srà un bèl dé, giurnèda d ôr, |
IX
E al caminêva adèsa par zarchèr, X
Acsé quand l arivé pó ind un cantîr, XI
“Bṡòggna suvgnîrsla fén stasîra ali òt XII
S’in vlî savèir de pió d l americàn, |
In zêrti basŏur
ed
Loris Fava
In zêrti basŏur ed mâż o d avréll,
guardàndum d atŏuren in gîr pr al curtéll,
dal vôlt a suzêd ch'a un séppa d avîṡ
ch'ag pòsa èsr in tèra un mèż paradîṡ:
un sŏul ĕilt e splĕndid mo brîṡa ṡgarbè,
al zîl bèl zelèst, vardéssum al prè;
luntàn là in muntâgna dŏu nóvvl ed bunbèṡ,
ché un'âria fraschénna l'un pôrta ind al nèṡ
al dŏulz di prufómm dal rôṡ, dal peòni,
di fiûr d ligabòsc e quî d santantòni;
un mêrel al canta ed cô d n albarén
e dŏu turturénn i un pâsen avṡén
e in rîva al laghĕtt i atèren pian pian,
al bĕvven un gŏzz e pò vî ch'al van;
fagând svîlt scanbiétt sî o sèt rundanénn
i arcâmen al zîl col sô serpenténn;
pió in ĕilt i siglón i van vî dezîṡ,
con vûl acrubâtic i s pâsen in sfrîṡ;
ṡvultê ind la banchénna al gât al se ztîra
e al stà un pôc al'ôra e un pôc in custîra.
Mé a guèrd es a un dégg che tótt ste spetâcuel
l é sŏul premavĕira anc s'al pèr un mirâcuel,
l'é sŏul na staṡŏn che prèst la finéss
cme al mŏnnd tótt i quî che al tĕnp al supléss:
pasè sucuànt dé la stĕssa natûra
la s manda in cunpĕns zinzèl e calûra,
e pŏ di bastèrd parfén tra i uṡî
ch'i un fan fòra i fîg: di branc ed sturnî;
d autón pó as tribŏlla col fói tótt i dé
e col pudadûr a n s à mai finé,
perŏ tótt i ân ch'arîva a n vĕdd l'ŏura,
ed mâż o d avréll, na bèla basŏura.
Dialàtt ed Pimâz - Dialetto di Piumazzo (MO)
Al gât di Tartaréin
ed/di Cesare Bonfigliuoli
Zirudèla, qué a Pimâz
Un
gatto fino, io vi dico, I l
ân zarchè tótt, grând e céin, La
famajja disperèda i
éin parté con al furgåun
Bulaggna, Caṡalàcc’ e Zôla, e i
dmandèvan a tótt quânt I
ân girè tótt disperè |
e
pó Crevalcôr, Bonpôrt e Surbèra
Sgnåura avîv vésst, par chèṡ, un bèl gatéin I l
ân vésst in piâza a Sulîra
Biânc e naigr al n é bra ló! I l
ân vésst na sîra a Manzuléin
Pôvar gât! Duv ît andè?
Sainza magnêr tanti giurnèd E
gîra gîra cåun ste furgåun |
La
fiôla, ch’l’é in viâż ed nòz
dal’Austrâglia la telêfona a Pimâz
Alåura la padråuna la tûl na deciṡiåun una
bóssta péina ed quatréin Na
sîra, cl’îra gnânc nòt
L’îra ló, tótt melandè Ala
véssta dal gatéin I
miténn in mòto la padèla |
Dialàtt ed San Gabarièl - Dialetto di San Gabriele di Baricella
Stefano Rovinetti Brazzi l é un profesåur ed latén e grêc e l é anc l autåur d un artéccol inpurtànt såura l'evoluziån stòrica dal dialàtt bulgnaiṡ ("Monottongazione e morfologia del nome e dell’aggettivo nel dialetto bolognese: ristrutturazione o analogia?", in L’Italia dialettale, Anno LII, Vol. LII (Nuova serie XXIX), 1989). Par séntrel in st mänter ch'al lèż äl såu poeṡî clichè qué - Stefano Rovinetti Brazzi insegna latino e greco in un liceo ed è autore di un importante articolo sull'evoluzione storica del dialetto bolognese ("Monottongazione e morfologia del nome e dell’aggettivo nel dialetto bolognese: ristrutturazione o analogia?", in L’Italia dialettale, Anno LII, Vol. LII (Nuova serie XXIX), 1989). Per sentirlo mentre legge le sue poesie cliccate qui
(Nòta: a druvän qué
l'urtugrafî dl autåur, ch'l'é pò qualla ed ste Sît adatè ala fonêtica dla sô
żòna
e una particolaritè: ló al saggna con na ṅ dåppia tótti äl vôlt ch'ai é
una n velèr lónga. As prêv fèr anc pr al bulgnaiṡ zitadén, mo an s fà
brîṡa pr i mutîv spieghè ala pâgina dla fonêtica ed
ste Sît - Nota: usiamo qui l'ortografia
dell'autore, cioè quella di questo Sito adattata alla fonetica della sua zona e una
particolarità: lui segna con una ṅ doppia tutti i casi di n velare
lunga. Si potrebbe fare lo stesso per il bolognese cittadino, ma non è fatto per
i motivi spiegati alla pagina della fonetica di
questo Sito).
Ala lûṡ dla sîre
Ala lûṡ dla sîre |
Alla luce della sera
Alla luce della sera |
|
Uraziŏṅṅ
Bât al mäṅṅ Sgnŏur |
Preghiera
Batti le mani Dio |
Dialàtt ed San Żvân - Dialetto di San Giovanni in Persiceto
La parâbola dal Fiôl Strasinån tradótta da Bertén Sèra - La parabola del Figliuol Prodigo tradotta da Roberto Serra
Lócca 15, 11-32
Al fiôl strasinòun
Al gé ânc:
Un òman l avîva dû fiû. Cal pió żòuvan al gé a sô pèdar: “Popà, dâm mò la pèrt
dal patrimòni ch’um tòcca”. E al pèdar al fé dòu pèrt ed tótta la sô rôba.
Pasè socuânt dé al fiôl pió żòuvan, dòpp ardótt tótt i sû quî, al parté pr un
paèiṡ luntàn, e là al strasiné tótt i bajúcc, fagând na vétta da scavazzacòl.
Quând l avé spèiṡ incôsa, in cal paèiṡ a rivé una grân carestî, e ló al taché a
avèir biṡòggn.
Alòura l andé a sarvézzi da ón ed cla regiòun, ch’al li mandé ind i canvèr a
pasturêr i ninéin. L arévv vló rinpîres col curnàcc’ ch’i magnêvan i ninéin, mô
inción ag in dèva.
Alòura al turné in ló es al gé: “Quânt ed chi brazéint in cà da mî pèdar i an
dal pan in abundânza, e mé a sòun qué ch’a múrr ed fâm! A um ciaparò só, andarò
da mî pèdar, es a g dirò: “Popà, ai ò pchè còuntr al zíll e còuntr a té; a n
sòun pió daggn d èsar ciamè tô fiôl. Trâtum bèin cunpâgna ón di tû garżón”. Al
parté, es l andé vêrs sô pèdar.
Quând l îra ânc luntàn, al pèdar al li vésst, e cumòs ag cûrs incòuntar, ag
salté al còl es al li baṡé. Al fiôl al gé: “Popà, ai ò pchè còuntr al zíll e
còuntr a té; a n sòun pió daggn d èsar ciamè tô fiôl”. Mo sô pèdar al gé ai
sarvitûr: “Spicêv, purtè mò qué al ftièri pió bèl e ftîl, mitîg l anèl al dîda e
i sândal ai pî. Purtè al vidèl pió grâs, mazèl, magnèin e fèin tuglièna, parché
mî fiôl l îra môrt e l à turnè a vîvar, al s îra pêrs e a l avèin turnè a
catèr”. E i tachénn a fèr tuglièna.
Al fiôl pió vèc’ l îra in canpâgna. In st mèintar ch’al turnèva, quând al fó
dòuntr a cà, al sinté ch’i sunèvan es i balèvan; al ciamé un sarvitòur es al g
dmandé sa capitéss. Al sarvitòur al g arspundé: “Ai é turnè tô fradèl, e tô
pèdar l à fât mazèr al vidèl grâs, parché al l à turnè a avèir san”. Ló al s
inaré tótt, e an vlîva pió andèr dèintar.
Sô pèdar, alòura, l andé fòra a preghèral. Mo ló l arspundé a sô pèdar: “Óu, mé
a t sarvéss da tânt ân, a n ò mâi diṡubidé a un tô òurdan e té t an m è mâi dè
un cavràtt par fèr tuglièna coi mî amîg. Mo adèsa che st fiôl che qué, ch’al s é
magnê tótt i tû bajúcc con dal dunâzi, l é turnè, par ló t è mazè al vidèl
grâs”.
Ag arspundé sô pèdar: “Céin, té t î sèinpar mîg, e tótt quall ch’é mî l é tô; mo
biṡgnîva fèr barâca e èsar cuntéint, parché tô fradèl l îra môrt es l à turnè a
vîvar, al s îra pêrs e a l avèin catè”.
Dialàtt d Altai - Dialetto di Altedo
ed/di Milla Martinelli
L insónni
Ai ò un insónni ind al côr e ind la mänt ch’al dà un säns al mî lavurèr, ch’l um dà la fôrze ed lutèr, l um tîre só quänd a n in pòs pió. Al sòul pensîr l um fà canpèr. A vói na cà in mèż ala canpâgne con d intòuran canvèr ed frût, ed furmänt, ed patèt, ed zivòll, ed tótt cal bän di Dío ch’al nâs dala tère col sòul e dal sudòur. Mé a m vadd là a lavurèr mo änc al’ôre di filèr, dóvv i râm i s pîgan par la frûte da purtèr. |
E al mî insónni l é la mî speränza, parché mé a vói infcîr acsé, giränd pr al cavdâgn a séintar l udòur, l umòur dla tère apanne arè. A i vói purtèr i mî anvudéin par fèri séintar al prufómm di fiûr, di mîl, di pîr, e fèri magnêr una pêṡghe ala matîne prèst, quänd la guâze la n s n é gnänc andè e l’à lasè una gòzze só la frûte. In cal mumänt l’à un savòur che pò a n l arà mâi pió. Al’ôre ed chi âlbar a i farò vàddar come i vínnan e i vän al staṡòn. |
E mé a sò che tótti ste sensaziòn i avänzan ind al côr e ind l’âlme par la vétte. Quänd i arän di pensîr, dali aversitè, i s arcurdarän chi mumént, e la pèṡ e la serenitè la gnarà a gâle dai aircôrd dändi na câlme e una fôrze ch’l’é de pió dal patrimòni ch’a i vói lasèr. |
Dialàtt ed Puratta - Dialetto di Porretta
L'Azzurra D'Agostino l'é una poetassa żåuvna ed Puratta. La s à mandè sta bèla poeṡî scrétta ai 25 ed lói dal 2006, che nó a publicän con la sô grafî - Azzurra D'Agostino è una giovane poetessa di Porretta, che ci ha inviato questa bella poesia del 25 luglio 2006. La pubblichiamo con la grafia originale.
e grill L é tri dé ch’ai é |
il grillo
Sono
tre giorni che c’è |
Dialàtt ed Bażàn - Dialetto di Bazzano
Luca Grasselli, un ragâz ed Bażàn inamurè dal sô pajaiṡ e ch’l à anc fât l asesåur ala Cultûra dla sô cmóṅna, l à publichè un lîbr ed poeṡî. La pió pèrt äli én in itagliàn, mo ai é anc quassta qué, in bażanaiṡ, che nó a publicän cum al l’à scrétta ló - Luca Grasselli, un ragazzo di Bazzano innamorato del suo paese, per la cui amministrazione comunale è anche stato assessore alla Cultura, ha pubblicato un libro di poesie. La maggior parte è in italiano, ma una è in bazzanese. La pubblichiamo con la grafia originale.
Abiura di Andrea Cappellano
Alaura inamureres l’è un sburdaz, un squéz d’orgasum d’anma, l’è un aptè ch’al sel in bàca quand t vàd quel ed baun, quand t’gh’è una quelch to fam. Alaura al rest ‘li ein tóti rob da strolegh, ‘d qui ch’i vanden al strél fati a ritrat ai mat, ai bazurloun ch’ai stan adrì. E qui ùc’ lusnà par streda da du ùc’, al feres te dal mànd, po gninta e bur? O sir sfighedi, sabet ‘d not stunedi, ghesgh ‘d dmandigh sfilazà int’al perdres ‘d taimp; zirer d’arloi, fadiga ‘d ùc’ ch’is seran e nuetar s’ciavo e salutain e incàra n’etra volta a s’arporta adrì al vulant, amigh ‘d barzlàta, amigh ‘d canzaun, amighi d’antighi faid e vic’ culur d’amaur: cunfus ‘liv dan indrì sauvra a la taila ‘d paigla ch’la not l’am dstand e al stàmg am masda ali óltmi brisel ‘d vàia.
Vangel sauvra vangel, salvàza
sauvra |
Allora innamorarsi è uno sbordaccio, uno schizzo d’orgasmo d’anima, è un appetito che sale in bocca quando vedi qualcosa di buono, quando hai una tua qualche fame. Allora il resto sono tutte cose da astrologi, di quelli che vendono le stelle fatte a ritratto ai matti, ai tonti che ci stanno dietro. E quegli occhi fulminati per strada da due occhi, il farsi te del mondo, poi nulla e buio? O sere sfigate, sabato di notti (note) stonate, cucitura di domeniche sfilacciata nel perdersi del tempo; girare d’orologi, fatica d’occhi che si chiudono e noi ciao e salutiamo e ancora un’altra volta ci riporta dietro il volante, amici di barzelletta, amici di canzoni, amiche d’antiche fedi e vecchi colori d’amore; confuse vi restituiscono, sulla tela di pece che la notte mi stende e lo stomaco mi rimescola, le ultime briciole di veglia.
Vangelo su vangelo, salvezza su |
Luca Grasselli, Una nuda fedeltà, Bologna : AZeta Faspress 2006, ISBN 8889982063, prezzo 9 €