Carlén Mûṡi e Antonio Fiacchi i én stè dû personâg’ inpurtànt dla creativitè bulgnaiṡa, brîṡa såul ed cla teatrèl. I dû artéccol ch’a preṡentän qué i én vgnó fòra dala canatta ed Fàusto Carpàn e i én pò stè publichè int la rivéssta dal Cral dla pòsta - Carlo Musi e Antonio Fiacchi sono stati personaggi importanti della creatività bolognese, non soltanto di quella teatrale. I due articoli qui presentati sono usciti dalla penna di Fausto Carpani e hanno visto la luce nella rivista del Cral poste.
Carlo Musi, un Petrolini bolognese
In un lontano quiz televisivo intitolato Il Musichiere, che furoreggiò negli anni ’50, ospite d’onore di una puntata fu l’attore italo-francese Serge Reggiani. Il taglio canzonettaro del programma prevedeva che gli ospiti, ancorché stonati, si esibissero con una canzone e fu così che, in omaggio alle origini emiliane, Reggiani scelse di cantare L êra Faṡôl. All’epoca ero bambino e riconobbi immediatamente la canzone che spesso avevo sentito canticchiare da mio nonno e della quale appresi essere autore un certo Carlo Musi, bolognese. Alcuni decenni dopo la passione per il dialetto mi portò a conoscere più da vicino questo personaggio, che sento un po’ mio e di cui amo interpretare ogni tanto qualche motivo.
Figlio di un cameriere, nacque a Bologna il 17 marzo 1851 e vi morì il 23 febbraio 1920. Egli rappresentò, o contribuì a definire, il vero tipo petroniano, amante della buona tavola e degli scherzi, delle allegre brigate con le quali tirava a far mattino, assiduo frequentatore dell’ironia e della battuta facile, oltreché, ovviamente, di ritrovi e dopo-teatro. Racconta di lui Alfredo Testoni in Ottocento bolognese: “Sebbene ligio al suo dovere, non trascurò mai gli allegri raduni gastronomici, le chiassose brigate, instancabile a ballare polke, mazurke e valzer per notti intere, madido di sudore, lottando poi durante il giorno col sonno. Ma una volta, mentre puliva l’interno d’una vetrina del negozio Baroni per adattarvi le stoffe, cedette alla stanchezza e si addormentò profondamente, mentre davanti al cristallo si raggruppavano i passanti, fra commenti e risate...”.
Fece i classici mille mestieri: commesso di merciaio, di chincaglierie, mercante di stoffe, contabile in una fabbrica d’astucci, commesso viaggiatore di abiti, di cravatte, di salumi, perfino rappresentante di una casa di cognac e, dal 1901 fino al giorno della morte, fu un onesto impiegato delle Regie Poste (il che significa che a 69 anni era ancora in servizio...). In ossequio alla sua fama di impenitente biasanòt, scelse deliberatamente il turno notturno presso gli uffici della stazione e a questo proposito val la pena ricordare che, in una mia ispezione a una cartella di suoi manoscritti conservata presso l’archivio della Famajja Bulgnaiṡa, ebbi la sorpresa di scoprire che molti monologhi, poesie e canzonette sono vergati in bella calligrafia sul retro dei moduli postali dell’epoca... il che significa che componeva nei momenti di pausa che il lavoro gli concedeva, così, di getto, sul primo foglio che gli capitava.
La sua costante presenza sulle scene bolognesi, la sua inconfondibile figura avvolta nel paltò o nella caparèla, la testa sormontata dal grande basco e il toscano perennemente penzolante dalla bocca, lo resero popolarissimo. I suoi celebri monologhi e le canzoni (oltre 60), scritti per intrattenere il pubblico negli intervalli tra la commedia e la farsa, ne fanno un precursore del cabaret, una sorta di Petrolini ante litteram, del quale fu un indubbio anticipatore, senza per altro averne conosciuto le fortune.
Sempre il Testoni, che fu suo grande amico ed estimatore, in una lettera che fece da premessa alla prima edizione dei suoi monologhi, ne esaltò le indiscusse qualità comiche, apprezzate anche da alcuni incontentabili “numi” del tempo: Giosuè Carducci ed Ernesto Masi. Anche Ermete Novelli, Eleonora Duse ed Ermete Zacconi ebbero per lui parole di sincero elogio.
Le canzoni di Musi furono scritte in un arco di anni che va dal 1882 al 1917. I suoi monologhi e i suoi testi sono pervasi da una comicità surreale, costruita innanzi tutto attraverso una perfetta valorizzazione delle risorse comiche e delle possibilità espressive del dialetto unite a una grande abilità, tutta teatrale, nella scelta delle situazioni e delle storie che talvolta sono relative a fatti e personaggi dell’epoca.
Carlo Musi ha lasciato anche una preziosa testimonianza delle sue capacità in incisioni discografiche ormai rarissime dalle quali prorompe ancor oggi una verve non comune, pur se realizzate quando il nostro era ormai avanti con gli anni. Questi documenti sonori hanno anche un altro importantissimo pregio: rappresentano una prova di come il dialetto si sia modificato nell’arco di un secolo. Molte sue canzoni sono state riproposte nel tempo da tanti esecutori venuti dopo: Adrianén, Dino Sarti, Quinto Ferrari, Walter Marcheselli, Mauro Mattioli (oltre al sottoscritto), mantenendo sempre intatta la loro freschezza e la loro vis comica e alcune son divenute dei veri “hit”, come si dice oggi, pur circoscritti alla provincia di Bologna [Nòta dal Sît Bulgnaiṡ: socuanti äli én andè anc pió in là - Nota del Sito Bolognese: alcune sono note anche oltre]. Alcuni titoli: oltre alla già citata L êra Faṡôl, troviamo Pirån al furnèr, La quadrégglia, “Dottrina in musica”, Pr un lavatîv, Al barbîr e la tòca ecc.
Le musiche delle canzoni sono molto raffinate, piene di richiami al café chantant, con armonie complesse e melodie che ancor oggi riescono a stupire per la loro eleganza e che al nostro orecchio possono sembrare in contrasto con la semplicità dei testi e, soprattutto, con l’uso del dialetto. Occorre invece tener conto della diffusa competenza musicale dell’epoca, mutuata e verificabile anche attraverso la notevole quantità di concerti e la capillare attività di circoli sinfonici, associazioni filarmoniche, corali, mandolinistiche, bande ecc. Per meglio rendersi conto di questo aspetto basti solo pensare che all’inizio del secolo venivano editi a Bologna due quindicinali di musica per mandolino, nei quali oltre a valzer, polke e ballabili vari, si potevano trovare trascrizioni per “concerto mandolinistico” di opere liriche di Verdi o di Wagner, oppure concerti e sinfonie di Mozart.
Premesso questo, val la pena ricordare che Musi era musicalmente analfabeta e componeva, quindi “a orecchio”, memorizzando i brani che andava via via creando e fischiettandoli poi al maestro Egberto Tartarini, direttore dell’allora famosa “Società Corale Orfeonica”, che li trasportava sul pentagramma.
Tutte le canzoni di Carlo Musi, con testi e spartiti, furono raccolte in un volume anch’esso ormai rarissimo, edito dalla libreria Brugnoli dal titolo “El mi canzunatt”. Questo volume offre una raccolta di situazioni, personaggi veri o di fantasia e fatti di una Bologna lontana e scomparsa che nessuno di noi ha conosciuto.
Se molti degli umori perduti della nostra città son giunti fino a noi lo dobbiamo a questo arguto e geniale impiegato postale di tanti anni fa, al quale - giustamente - è stata dedicata anche una piazzetta fuori porta San Donato.
Antonio Fiacchi, il “papà” del Sgnèr Pirén
Di Antonio Fiacchi “postale” (Bologna, 1842 - Roma 1907), sappiamo che fu impiegato alla Direzione dei Telegrafi di Stato, che aveva sede in piazza Malpighi. Ma la notorietà, pur circoscritta in ambito cittadino, gli derivò dalla sua attività di critico teatrale, commediografo, giornalista e scrittore. A detta di autorevoli critici egli fu uno dei maggiori, se non il maggiore umorista italiano della seconda metà dell’ottocento e la sua fama resta legata al personaggio del “Sgnèr Piréin Sbolenfi”, sapida figurina di piccolo borghese petroniano.
Viene spontaneo fare un parallelo con un altro personaggio letterario dell’Italia umbertina: il piemontese Monsü Travet del Bersezio, prototipo dell’impiegatuccio sempre maltrattato dai superiori. Ma la figura che più si avvicina al nostro omino è senz’altro il rag. Ugo Fantozzi di Paolo Villaggio: anche al Sgnèr Pirén ha una moglie, la sgnèra Lucrezia, corpulenta e un tantino petulante e una figlia, Argìa, anzi Ergìa, come la chiama lui, bruttina e pretenziosa come la figlia di Fantozzi. Ma è nei fatti quotidiani che troviamo le similitudini più evidenti. Anche Pirén è sempre in balìa degli eventi e della cattiveria della gente, perennemente vittima predestinata di scherzi anche grossolani e sempre alla ricerca di quel benessere che non arriva mai.
A differenza di Fantozzi, però, il nostro ha una visione ottimistica del mondo, nonostante le mille disavventure che lo coinvolgono quasi quotidianamente e che lui, nella sua disarmante ingenuità, non attribuisce alla cattiveria della gente ma al caso. Ha anche una sua dignità che difende indossando un tabarrino per coprire le toppe che la moglie gli ha cucito sui gomiti. Sulla testa inalbera perennemente un genèsi, sorta di cappello a cilindro che non leva mai e che spesso è preso di mira dalla ragazzaglia.
Le disavventure del sgnèr Pirén sono narrate dal Fiacchi in forma epistolare, nel senso che è lo stesso candido omino a raccontare i suoi casi nelle lettere che indirizza al sgnèr Derettore dei giornali Ehi, ch’al scuṡa prima, “È permesso?” e “Bologna che dorme” poi e che Oreste Trebbi, nel 1913, raccolse in un unico volume. Punto di forza di queste lettere, oltre alle situazioni paradossali, è senz’altro il linguaggio che l’Autore fa scaturire dalla penna di Pirén: gli inquilini diventano aquilini, pazienza... piacenza, recriminazioni... creminazioni e via di questo passo.
Uno strano destino pare legare il Fiacchi alla sua creatura: non più giovanissimo, la prospettiva di un avanzamento di carriera nelle Regie Poste (che poi non si rivelò per tale) lo indusse a lasciare la sua amatissima Bologna per approdare in un ufficio ministeriale a Roma. Ma qui, pur continuando a spedire le sue lettere dalle rive del Goliseo (...), la lontananza dal mondo petroniano inaridì la sua vena arguta. Antonio Fiacchi ebbe amici ed estimatori quali Alfredo Testoni e Olindo Guerrini, il quale elesse ad immaginaria autrice delle sue irriverenti Rime di Argìa Sbolenfi la figlia di quel Pietro Sbolenfi che altri non è che al Sgnèr Pirén.
Fiacchi si spense a Roma il 21 maggio del 1907 e anche a lui venne intitolata una strada dalle parti del Pontevecchio. Tre giorni dopo, il 24, una donna del Borgo di San Pietro, già in preda alle doglie del parto, non riuscì ad arrivare al S. Orsola e partorì sul marciapiede antistante la Clinica Ostetrica.
In questo modo venne al mondo Quinto Ferrari, ma questa è un’altra storia.
Una poeṡî mâi
publichè ed Fiacchi
truvè e spedé dala sgnèra
Raffaella Costi
Una poesia inedita di Fiacchi
trovata e spedita dalla signora
Raffaella Costi
Urtugrafî
dal Sît La fazè d San Ptròni Däntr in San
Ptròni a n i sån mâi stè E a m arcôrd,
come adès, vṡén
ala pôrta, E dänter,
apanna dänter, una fiadè Mé, drî ai
pilâster e al vôlt, a m incantèva, E pròpri am
zîga al côr, in veritè, E té, San
Ptròni, d’int la tô capèla, Al Sgnèr Pirén |
Grafî uriginèl La faze’ d’San Ptroni Deintr in San
Ptroni a n’j son mai stè E a m’arcord,
com’è adess, vsein a la porta, E deintr,
apanna deintr, una fiadè Me, dri ai
pilaster e al volt, a m’incantèva, E propri am
ziga al cor, in veritè, E te, San
Ptroni, d’int la to capela, Al Sgner Pirein |
Una poeṡî fôrsi ed Testoni - Una poesia attribuita a Testoni
Al sgnèr Giuseppe Benfenati al s à spedé sta poeṡî che fôrsi l'é d Testoni, scrivàndes - Il sig. Giuseppe Benfenati ci ha inviato una poesia attribuita a Testoni, con la seguente spiegazione: "Avrei una poesia tramandata da mio nonno che conservava, dagli inizi anni 70, nel suo portafoglio a ricordo della sua mamma (ovviamente mia bisnonnna!). Era un ritaglio del Carlino dei primi anni '70 che lui conservava gelosamente: tale giornale diceva che era una poesia di Testoni, ma dopo averla fatta vedere e leggere a Carpani e Lepri, hanno espresso dei dubbi in proposito. Mio nonno si chiamava Ferruccio Grillini, nato a Bologna il 27 marzo 1887 e morto nel 1976. A sedici anni è stato a lavorare come fattorino di Augusto Galli (l’inventore di Sganapino) orefice, ma per una serie di circostanze è finito in ferrovia, conoscendo un altro grande bolognese il conferenziere e scrittore, Mario Bianconi, di cui è stato molto amico e ricordato da quest’ultimo nel suo libro “Trent’anni di officina”.
Urtugrafî
dal Sît Zinquant’ân fà A m arcôrd cme adès
che, da cinén, Int la panîra i m
dénn pr andèr a scôla |
Grafî
uriginèl Zinquant’ann fa Am arcord com’e
adèss che da cinein, Int la panira im
denn pr’andar a scola |