Polèmic - Polemiche


24.11.2011


Franchén Presidänt!
Franchino for President!


Cari visitatori del Sito,

siamo lieti di annunciarvi che il Walhalla dei luminari in materia di dialetto bolognese si è arricchito con l’acquisto di un nuovo e validissimo elemento: il Professor Franchino Falsetti.

Il nostro nuovo beniamino, Falsetti Professor Franchino, non solo fa il musicologo e il critico d'arte, ma è anche presidente dell’Associazione culturale dialettale “L’Archiginèsi” (in OLM “L Archiginèṡi”). Infatti, il Nostro ha cultura così enciclopedica, ed è talmente versato in tutte le materie dello scibile, da poter proludere su qualunque argomento! Ed ecco che, preso da fervido attivismo culturale, il nuovo inquilino del nostrano Walhalla ha organizzato, il 29 ottobre 2011, un Convegno dal sintetico e accattivante titolo “Il dialetto nel contesto pluralistico dei mezzi di informazione, delle nuove realtà multiculturali e delle rapide trasformazioni della lingua italiana. Quale continuità? Quali funzioni (socio educative e/o formative)? Esperienze e contributi”.

L’occasione pareva assai ghiotta, poiché la competenza del nostro nuovo beniamino nel campo del dialetto bolognese è notoriamente profondissima e insuperata in tutto l’orbe terracqueo, così ci siamo precipitati al Convegno, nella speranza di erudirci almeno un po’ ascoltandone la trascinante oratoria tuttologica.

Le nostre speranze non sono andate deluse: la prolusione del nostro nuovo beniamino, Falsetti Professor Franchino, è stata di una chiarezza illuminante, nonché esempio di bello stile letterario italiano. Ecco un assaggio per le folle acclamanti, affinché possano plaudere al suo nitore: "Noi abbiamo anche la disponibilità per potere col prossimo anno intraprendere, in comune logicamente accordo, anche delle iniziative pubbliche. Quindi non soltanto attività che possono rispondere alla nostra logicamente esigenza, come quella appunto di rispondere ai nostri soci, ma anche come quella di ripotere cominciare anche a rispondere e a interagire con le varie richieste o con eventualmente la trattazione di argomenti che sono di nostra stretta competenza ma che comunque penso, e pensiamo, possono coinvolgere un maggior numero non soltanto di interessati ma di cittadini".

Ma ciò che più conta non è il bello stile, bensì la solidità degli argomenti, l'esattezza delle citazioni, la profondità dei concetti; ecco un altro brano, scelto per il suo particolare valore contenutistico: "Una cosa che mi preme mettere a questo punto logicamente in evidenza è che cosa significa la parola dialetto. Perché tutti diciamo dialetto ma forse ci poniamo o dovremmo porci questo quesito. Dialetto deriva dal greco dialéktos che vuol dire parlata, vuol dire colloquio, vuol dire familiarità. Allora chi parla il dialetto parla la lingua degli affetti, parla la lingua della comunicazione immediata, spontanea, di ciò di cui tutti condividono, di tutti prendiamo atto, cosa diversa da appunto la lingua è vero in questo caso di un determinato territorio più vasto perché, perché è un sistema, un sistema linguistico all'interno del quale logicamente ci sono tanto elementi di grammatica, di sintassi e via discorrendo. È vero che la lingua bolognese, detta anche dialetto bolognese, anche qui con un lungo percorso, perché lo stesso Croce, il grande Croce non, è vero, il filosofo ma il padre praticamente del dialetto bolognese metteva in evidenza, come poi riprenderà lo stesso Testoni, che chi si occupa di grammatica del dialetto bolognese, o della sintassi del dialetto bolognese, non è molto a posto. Perché, perché la lingua bolognese bisogna anche prenderla così come l'abbiamo ereditata. Volere aggiustare accenti, fonetiche e quant'altro vuol dire mortificare un qualche cosa di cui nessuno ne aveva mai avuto bisogno".

Indubbiamente avrete notato la genialità del Nostro che, con i suoi arditi paradossi, riesce ad avvincere l'attenzione anche del più sonnacchioso uditorio: un professore che dice che chi studia non è a posto è un vero coup de théâtre retorico, roba da far impallidire Cicerone. Non solo, anche confondere sintassi e fonetica, grammatica e ortografia, è una brillante trovata che serve per sincerarsi se il pubblico sta attento: se serpeggia l'incredulità, vuol dire che hanno ascoltato; se invece mentre il Nostro rendeva edotti gli ascoltatori loro proditoriamente facevano gli aeroplanini di carta, allora la mancanza di reazioni a tale elementare ma astuto trabocchetto consente al nuovo inquilino del Walhalla di accorgersi della distrazione degli astanti e gli dà il destro per ribadire meglio i suoi istruttivi concetti.

Non sia mai detto, infatti, che la luminosa Verità diffusa dal nostro nuovo beniamino passi inosservata, perché così si avallerebbero oscure cospirazioni: noi pensavamo che Luigi Lepri, Fausto Carpani, Roberto Serra, Daniele Vitali, Amos Lelli, Stefano Rovinetti Brazzi e gli altri membri della Bâla dal Bulgnaiṡ, che da anni portano avanti lo studio e l’insegnamento del dialetto bolognese, organizzando corsi, pubblicando vocabolari e grammatiche, scrivendo libri e dando al bolognese una visibilità che non aveva più da almeno 50 anni, fossero dei benemeriti, degli esempi da imitare, e invece adesso scopriamo che non sono tutti a posto, addirittura che mortificano il dialetto! E che dire della Coronedi Berti, la quale per prima si pose in modo chiaro e ragionato il problema dell’ortografia dialettale e della scrittura di una grammatica (che infatti apre il suo famoso Vocabolario in due volumi del 1869-1874)? E che dire di Croce, di Testoni, tutti autori in dialetto bolognese che, mettendolo su carta, hanno consentito il formarsi di una tradizione letteraria di questo idioma che alcuni vorrebbero solo parlato, e buono solo a parlare di letame ed erba medica?!

Sì cari lettori, proprio così, tutti malvagi mortificatori del dialetto, che vogliono dargli delle regole che questo non ha. Meno male che il nostro nuovo beniamino vigila e controlla l'ortodossia, perché l'Errore è sempre in agguato: basti pensare che persino gli associati dell'Archiginèsi sono stati più volte pubblicati nell’ortografia consigliata dalla Bâla dal Bulgnaiṡ: loro credevano di fare del bene al nostro dialetto scrivendo tutti secondo le stesse convenzioni e cercando di essere il più possibile aderenti all’effettiva pronuncia, in modo da documentare, coi loro lavori, il dialetto bolognese anche a beneficio delle generazioni future - e invece no! Si erano semplicemente lasciati irretire da una congrega di mortificatori del dialetto, i quali spargono a piene mani malefici accenti che il nostro nuovo beniamino, Falsetti Professor Franchino, non ha mai autorizzato!

È per questo che dichiariamo il 29 ottobre 2011, felice dì in cui si tenne il Convegno, “Giornata della Liberazione dai Diacritici” e lo dedichiamo alla faconda opera di questo grande pensatore dell’età moderna, il nostro nuovo beniamino, Falsetti Professor Franchino! Festeggiate con noi cari visitatori del Sito, e non seguite i cattivi maestri: chi scrive grammatiche e vocabolari è da guardarsi con estremo sospetto, potrebbe addirittura, ogni tanto, usare per davvero il dialetto bolognese anziché trattarlo come una mummia egizia!!!

 

19.04.2008

E due!

Da un po' di tempo a questa parte, Internet è infestata da un individuo che si crede Chomsky e invece scrive sulla linguistica, e in particolare sul dialetto bolognese, un diluvio di assurdità che non stanno né in cielo né in terra, e che sarebbe opportuno passare sotto pietoso silenzio. Senonché il nostro individuo, che tiene un blog e ha già pubblicato ben due terribili libri, mostra un tale attivismo nell'attaccare con furore tutto ciò che è stato fatto in questi ultimi 20 anni per il dialetto bolognese, che merita senz'altro una risposta. E così abbiamo deciso di informare il pubblico, tanto per mettere le cose in chiaro ed evitare che si avveri il triste motto per cui ha ragione chi grida più forte (e il nostro individuo, con tutti i punti esclamativi che sparge a piene mani e una riprovevole vocazione all'insulto, grida forte anche quando scrive).

Cominciamo dai libri. Nel primo, scritto con una grafia inventata nel salotto di cucina e abusivamente spacciata per quella dello studioso Alberto Menarini, l'individuo sentenziava io uso le regole stabilite da Menarini e quelli che non le usano sono asini o scemi! Già allora facemmo notare che, oltre allo stile, anche il contenuto era un vero capolavoro, in quanto il primo a non seguire le regole di Menarini, a cominciare dal puntino su s e z sonore, è proprio il suddetto individuo. Abbiamo anche cercato di ricordargli, fra l'altro con un riferimento alle pagine dell'ortografia e della fonetica di questo Sito, che:

1) chiunque è libero di usare la grafia che vuole per scrivere il bolognese, l'importante è che sia coerente con le proprie decisioni;

2) esistono storicamente a Bologna tre grafie: quella letteraria (da Croce a Testoni), quella divulgativa (di Menarini) e quella lessicografica, iniziata con le riflessioni di Carolina Coronedi Berti e poi evolutasi, con l'arricchimento dei segni della glottologia, nell'ortografia Gaudenzi-Ungarelli-Trauzzi, poi semplificata da Mainoldi nel 1950 e ulteriormente sviluppata da Luciano Canepari e Daniele Vitali nel 1995 in seguito a uno studio moderno della fonetica reale del dialetto bolognese - ne è nata l'Ortografia Lessicografica Moderna, proposta da Daniele Vitali e Luigi Lepri nel loro dizionario tascabile del 1999, e usata anche da questo Sito, dal giornalino Al Pånt dla Biånnda di Fausto Carpani, dal Corso di Bolognese tenuto da Roberto Serra al teatro Alemanni, dai corsi di budriese di Tiziano Casella, dalla grammatica bolognese pubblicata da Daniele Vitali nel 2005, dai libri di Luigi Lepri, Fausto Carpani e altri autori, dalle poesie di Sandro Sermenghi e dall'ultimo nato di questo grande e collettivo pacchetto di tutela e valorizzazione del dialetto bolognese che si sta portando avanti da anni, il grande dizionario scritto da Luigi Lepri e Daniele Vitali, con l'aiuto di Amos Lelli e Roberto Serra, pubblicato nel 2007 da Pendragon. In pratica, quella che era nata come un'ortografia da usare nei vocabolari e altre opere scientifiche, è diventata di fatto l'ortografia del bolognese per eccellenza;

3) chi non segue questo tipo di risultati, dovrebbe perlomeno presentarsi con una proposta motivata, e senza offendere.

Nell'introduzione al suo secondo parto cartaceo, l'individuo ribadisce di essere allievo di Menarini, il quale sarebbe il solo autore degno di essere letto, nonché il solo che abbia scritto il bolognese correttamente: per questo, l'individuo afferma di seguirne fedelmente la grafia, con alcune licenze (il cui elenco occupa quasi una pagina!)... Nessuna delle critiche che gli facevamo sembra quindi essere stata compresa, però almeno il nostro ha capito che lo abbiamo criticato anche sul contenuto e sugli strafalcioni fatti. La sua reazione non è stata cercare di curare un po' la coerenza del suo sistema grafico e di rispettare un po' meglio la grammatica e il lessico originali del bolognese (tant'è vero che continua a sbagliare clamorosamente la sintassi, come quando pontifica bisàggna ch'al le ripéta ànch qué parlando di se stesso alla III persona anziché alla I perché confonde "al le" con "a l"): poiché queste operazioni richiedono fatica e umiltà, il nostro ha preferito inventare una teoria nuova, secondo cui non c'è, non c'è mai stata e non ci sarà mai una regola per scrivere il bolognese e neanche per leggerlo e così ognuno si è sempre arrangiato. Tra un libro e l'altro si è passati da sono asini e fessi quelli che non scrivono come me a non ci sono regole, quindi ognuno fa come gli pare: potenza della nostra recensione!

È evidente che il nostro individuo comincia a essere un po' affannato e, temendo di mettere il piede in fallo, adesso cerca di relativizzare. E non solo nella grafia, ma anche nella grammatica e nel lessico che, a differenza della grafia, NON sono un'opinione! Scrive infatti: Certo che anche il bolognese, come tutte le lingue, cambia, è sempre cambiato e ha sempre subito l'influenza dell'italiano, perciò anche la mania di voler usare oggi delle espressioni in uso 100-200 anni fa è un esercizio da "pistulón!" (cioè da minchioni). La vocazione all'insulto è rimasta, ma il punto di vista è rivoluzionario: allargando a dismisura i limiti di quel che sarebbe bolognese accettabile, il nostro spera di tutelarsi contro i rilievi di chi gli fa notare che la sua padronanza del dialetto è alquanto malsicura (il che fra l'altro non sarebbe affatto una colpa, se almeno accettasse d'imparare qualcosa). Il turpiloquio prosegue: Lo stemma di Bologna è antico come il bolognese e siccome c'è scritto sopra libertas... i bolognesi hanno la libertà di scrivere e pronunciare il proprio dialetto come vogliono senza che nessuno venga a rompere i coglioni perché si faccia a suo modo, e che venga a dire che gli altri fanno le cose al contrario. Su questo, stile a parte, siamo d'accordo, e infatti è quel che abbiamo tentato senza frutto di fargli capire la volta scorsa. Evidentemente tuttora non ha capito, altrimenti avrebbe dovuto perlomeno chiedere scusa (così si fa tra persone civili, in genere).

Veniamo ora al blog, sul quale si possono seguire in tempo reale le più appassionanti novità dell'individuo-pensiero: ci sono le perle della linguistica creativa, che faranno rivoltare nella tomba Ascoli e tutti gli altri glottologi italiani dalla fine dell'Ottocento ad oggi, del tipo i dialetti toscani contengono forse meno latino degli altri, ma le affermazioni più incredibili riguardano sempre la sua vittima preferita, il povero dialetto bolognese: i bolognesi e il dialetto bolognese non esistono, tanto per ribadire che, siccome non esiste, lui può maltrattare il bolognese come vuole e descriverlo come non è, ad es. affermando che non dobbiamo pensare che il dialetto bolognese come lo vediamo scritto dal Mitelli nel '600, dalla Coronedi Berti nell'800 o dal Testoni a cavallo tra '800 e '900 fosse tanto diverso da quello parlato oggi (concetto che ripeto spesso, poiché vedo che è duro da capire!). Quello che sembra duro da capire è come si possano affermare castronerie del genere, quando fior fiore di studi dimostrano che il dialetto del Croce (fine 500-inizio 600) aveva un vocalismo del tutto diverso da quello attuale: forse è per questo che l'individuo non sospetta a cosa serva il circonflesso, perché non si è accorto di mezzo millennio di evoluzione linguistica?

Ma la manipolazione più evidente riguarda la sua seconda vittima preferita, Menarini: seguiamo l'insegnamento di Menarini e, se proprio vogliamo fare qualcosa, andiamo avanti e non indietro! Non dico che dopo Menarini siano finiti gli studi sul bolognese (per quanto…), ma se il dialetto sopravvivrà, se cambierà, si provvederà a cambiare a suo tempo. Oggi credo che la pronuncia (ed anche la grafia) sia quella del Menarini e nessuno mi venga a raccontare che 100 anni fa il dialetto era tanto diverso da quello di oggi! e giù sparate abnormi su tutto quel che è stato scritto prima, durante e dopo Menarini, e che secondo l'individuo non varrebbe nulla. È abbastanza chiaro che, totemizzando il povero Menarini (il quale è un peccato non abbia mai scritto una grammatica o un vocabolario, perché è l'unico che l'individuo giudica capace di fare certe cose, nonostante i dizionari bolognesi da metà Ottocento ad oggi siano stati 9, ma del resto lui ne conosce solo due) e autoproclamandosene allievo, in pratica il nostro individuo crede di essersi autoassicurato un posto nel pantheon degli studi bolognesi, e di essersi autoconferito l'intoccabilità.

Di fronte a quest'ecatombe ai danni della serietà e della verità, noi non possiamo che reagire, e continueremo a tener d'occhio gli exploit dell'individuo per dargli giù la polvere in tutte le sedi pertinenti. A beneficio del dialetto bolognese e di chi vuol essere informato correttamente in materia.

14.09.2006 - Recensione di:
Tiziano Costa e Paolo Canè, V’gnì mò qué bulgnìs. Ai é da rédder e da zighèr ...e da zighèr dal rédder, Bologna : Costa 2006

Il libro si divide in due parti. La prima è una rassegna di eventi storici bolognesi reinterpretati in chiave ironica da Tiziano Costa, la seconda è una sterminata serie di barzellette nazional-popolari ordinate tematicamente e attribuite da Paolo Canè un po’ al padre e un po’ alla vox populi petroniana.

Per tacere della seconda, nemmeno la prima parte è originale, in quanto già pubblicata nel 1991 (Fat antìg dla zitè. La città antica. City tales, Bologna : Costa), e allora almeno era chiaro che i testi scritti da Costa erano stati tradotti in bolognese da Luigi Lepri. Malgrado quell’originario contributo stavolta non sia nemmeno citato, a un primo esame non pare sia cambiato molto, se non la grafia, di cui diremo dopo, e l’aggiunta di una serie di considerazioni personali e aneddotiche su aspetti minori come il mercato, i vestiti, il primo cinema. Dopo l’adesione all’Italia (il primo libro si fermava al 1859), Costa ritiene infatti esaurita la storia di Bologna, e preferisce attardarsi in un rancido com’eravamo che tiene rigorosamente lontana la storia vera: lo sfiguramento della città da parte del piano regolatore postunitario, le due guerre mondiali, la ricostruzione e la nascita del modello emiliano, la bomba del 2 agosto ecc. ecc.

Veniamo ora alla grafia. I testi tradotti da Lepri nel 1991 seguivano il sistema di Alberto Menarini, grande studioso del dialetto bolognese cui anche questo Sito ha dedicato da tempo un omaggio. Rispetto al 1991, Canè compie una vera e propria rivoluzione-involuzione: la grafia di Menarini prevedeva il massimo della semplificazione pur senza rinunciare (a differenza di quella testoniana) alla riconoscibilità fonetica delle parole.

Canè sparge invece una quantità soverchia di accenti inutili, come su mànnd, mài, dàpp, Càrlo Màgno, ànch, àn, Frànch, quàlla, Itàlia, il tutto in poche righe di pag. 16: ma su quali altre vocali poteva cadere l’accento? Una volta deciso di rinunciare a distinguere fra vocali lunghe e brevi abolendo il circonflesso, non c’era bisogno di nessun’altra indicazione!

Inoltre, sopprime il puntino su s, z, n nonostante la sua funzione di distinguere fra parole, es. cusén “cuscino” versus cuṡén “cugino”, znèr “cenare” vs. żnèr “gennaio”, tutti scritti da Canè allo stesso modo malgrado il puntino fosse la principale conquista della grafia menariniana.

Infine, non sapendo scomporre la catena parlata in unità morfologiche, crea mostruosità come ch’al lìber “quel libro”, ch’el i ètri “quelle altre”, ch’sa vùt “cosa vuoi”. Eppure la differenza tra aggettivi dimostrativi come cal e sequenze di pronome relativo che + articolo al dovrebbe essere chiara: “quel libro” è cal lìber, perché ch’al lìber significa “che il libro”, così come “cosa” in posizione atona è csa, non ch’sa, che fa pensare al pronome relativo più qualcosa che non esiste!

In generale, il tutto dà l’idea di essere scritto un po’ a casaccio, basti dire che, ovunque in italiano sia prevista una vocale intralessemica e in bolognese no, viene inserito un apostrofo (v’gnì “venite” al posto del più semplice e ovvio vgnì, d’la “della” anziché dla, C’món “Comune” anziché Cmón ecc.) e che gli accenti sono ora acuti ora gravi (a pag. 88-89 “barbiere” è scritto prevalentemente barbír nei titoli ma barbìr nei testi), anche laddove dovrebbero avere funzione distintiva: se é indica e chiusa e è indica e aperta, allora sè, sèppa, avèrra “sì, sia, apre” sono errori, dato che in bolognese queste parole si pronunciano con e chiusa: sé, séppa, avérra. Ce n’è anche per le consonanti: se si scrive quàssta, gióssta per mostrare la lunghezza della s, allora alla stessa pagina 5 bisogna scrivere linguésstich e non linguéstich, dato che la s dura esattamente allo stesso modo, e così via. A questo vanno aggiunti errori tipografici frequenti e fastidiosi come ivarnisè, tàn, sàggnn al posto di invarnisè, tànt, sàggn “verniciato, tanto, segno”, e invenzioni ed errori persino di tipo lessicale e morfologico: a Bologna “nonni” si dice nun, a cosa serve dichiarare a pag. 7 di essere un bolognese di città quando si scrive sistematicamente nón per tutto il libro, come se la parola in città non avesse plurale metafonetico? Altre chicche sono sarà, sarévv, perfèt, petroniàn, pupàz, sgnàur Curèt “sarà, sarebbe, perfetto, petroniani, pupazzi, signor curato” al posto di (come si scriverebbero in base ai suoi principi) s’rà, s’révv, parfèt, p’truniàn, bambùz, s’gnèr Curèt – intendiamoci, chi italianizza e misconosce il dialetto può dire sarà, sarévv per “sarà, sarebbe”, ma chi lo parla (e lo scrive) con un po’ di attenzione sa che quelle parole in realtà significano “saprà, saprebbe”. Per non dire della differenza fra sgnàur "signore" nel senso di "Dio" e sgnèr, apposizione che si mette davanti ai nomi: una regola del genere un madrelingua la conosce e l'applica, anche se magari non la sa formalizzare; invece un improvvisato senza alcun dominio del sistema in cui vorrebbe sproloquiare non ne ha idea e scivola su tutte le bucce di banana.

Di fronte a un simile disastro sarebbe stata opportuna una certa modestia, come quella solitamente mostrata da autori ben più preparati e accorti, e invece nella nota sulla grafia Canè scrive testualmente (pag. 7): mé a dróv él régol stabilé da Mnarén e qui ch’in i dróven brìsa i én di sumàr o di cióca-piàt!, che significa “io uso le regole stabilite da Menarini e quelli che non le usano sono asini o scemi!”. A parte lo stile, che parla da solo, si è già visto che Canè non usa affatto (purtroppo) il sistema menariniano, che non padroneggia e non sa nemmeno interpretare nello spirito: Menarini infatti spiegò più volte di usare una grafia di comodo, adatta ai suoi scopi divulgativi e per questo mirante alla massima semplificazione per agevolare chi conosceva soltanto la grafia italiana, da cui l’abolizione del circonflesso di cui pure riconosceva l’utilità in sede diversa. Per questo, Menarini non si sognò mai di insultare i lessicografi come Gaspare Ungarelli e Pietro Mainoldi, che avevano ritenuto opportuno utilizzare, per i rispettivi vocabolari del 1901 e del 1967, una grafia molto più complicata, che oltre ai puntini su s, z, n (che come abbiamo detto anche Menarini accolse e diffuse) faceva uso del circonflesso, di å e di altri segni della glottologia. Il grande dialettologo del passato non ha mai affermato, malgrado il parere di certi scalcinati epigoni, che il bolognese si deve scrivere per forza come l’italiano, e tanto meno è lecito ricavare dai suoi ottimi libri che Se in italiàn ai é del régol par la letùra ed “-gn” e “-gl”, s’ai é del régol par la scritùra ed “-mb” e “-mp” ecétera él stàssi régol i àn da valàir ànch in bulgnàis, cioè “Se in italiano ci sono regole per la lettura di gn e gl, se ci sono regole per la scrittura di mb e mp eccetera, le stesse regole devono valere anche in bolognese”.

In realtà, la scrittura ptrugnàn, itagliàn, banbûz, canp “petroniani, italiano, pupazzi, campo” al posto degli ungarelliani e mainoldiani ptruniàn, italiàn, bambûz, camp è una conquista degli ultimi anni, sulla quale Menarini non ebbe la possibilità di esprimersi, in quanto successiva alla sua scomparsa avvenuta nel 1984. E non si tratta di una novità arbitraria del dizionario Vitali-Lepri del 1999, bensì del risultato di un’analisi approfondita e moderna della reale pronuncia del bolognese (in particolare dell’articolo “Pronuncia e grafia del bolognese” di Canepari-Vitali 1995), che ha fatto emergere caratteristiche fino ad allora non studiate, le quali fra l’altro sono tipiche degli errori dei bambini bolognesi quando imparano a scrivere l’italiano (“ergna, itagliano, ganba, canpo”) e come tali verificabili da tutti, anche da Canè, una volta formalizzate a livello di ricerca. Certo l’ignoranza di 11 anni di studio scientifico del bolognese non è una colpa per il parlante, che si limita appunto a parlare il dialetto, ma chi lo scrive, e ama pontificare, farebbe bene a informarsi, cosa fra l’altro non particolarmente difficile: sulla questione della grafia ad es. è in rete da tempo una pagina del Sito Bolognese, in cui si spiega in modo chiaro (e senza contumelie per chi la pensa diversamente) la differenza tra una grafia divulgativa, come appunto quella menariniana, e l’ortografia lessicografica moderna (OLM) pensata per opere come vocabolari e grammatiche e poi, per la sua aderenza alla fonetica effettiva, diffusasi anche in lavori di poesia e prosa a discapito della grafia divulgativa e degli altri sistemi.

L’unificazione di fatto della grafia bolognese cui abbiamo assistito sul nostro mercato editoriale in questi ultimi anni è un fenomeno estremamente positivo anche per le sorti di quel dialetto di cui in introduzione del libro qui recensito si piangono le sorti (salvo poi perdere il tempo proprio e altrui in polemiche inutili e sgangherate).

In conclusione, di questo V’gnì mò qué bulgnìs non si sentiva proprio la mancanza: è apodittico, superfluo, pasticciato e del tutto discosto dalle tendenze positive mostrate ultimamente dal mercato editoriale bolognese. È una fortuna per il nostro dialetto che vi siano a sostenerlo ben altri autori, nonché editori del calibro di Vallardi, Perdisa e Pendragon, perché se dipendesse dal duo Costa-Canè non ci sarebbe molto da rallegrarsi per quel meraviglioso e indispensabile prodotto che è il libro in bolognese.


Ala prémma pâgina
Và só